11. EMATOLOGIA E ONCOLOGIA

131. DISORDINI DELL’EMOSTASI E DELLA COAGULAZIONE

Malattie caratterizzate da una tendenza al sanguinamento.

Sommario:

EMOSTASI
    Esami di laboratorio



EMOSTASI

L’emostasi, processo mediante il quale si arresta il sanguinamento da un vaso sanguigno leso, richiede l’attività combinata di fattori vascolari, piastrinici e plasmatici così come di meccanismi regolatori di controbilanciamento che limitino l’accumulo di piastrine e di fibrina nell’area danneggiata. Anomalie emostatiche possono portare a un eccessivo sanguinamento o a trombosi.

Fattori vascolari: i fattori vascolari riducono il flusso sanguigno dal trauma tramite vasocostrizione locale (reazione immediata al danno) e mediante compressione dei vasi danneggiati da parte del sangue fuoriuscito nei tessuti circostanti (v. Cap. 134).

Fattori piastrinici: le piastrine aderiscono al sito danneggiato della parete vasale e formano aggregati chiamati tappi emostatici che fungono da elemento chiave del tamponamento emostatico. Le piastrine inoltre rilasciano fattori che aumentano la vasocostrizione (p. es., serotonina, trombossano A2) e danno inizio alla riparazione del danno della parete vasale (fattore di crescita di origine piastrinica), fornendo infine supporti di membrana e componenti per la formazione di complessi enzima/cofattore nelle reazioni emocoagulative.

Le piastrine circolanti non aderiscono l’una all’altra o al normale endotelio, ma aderiscono al subendotelio, che è esposto quando il limite dell’endotelio vasale viene rotto. L’adesione piastrinica richiede la partecipazione di una proteina secreta dalle cellule endoteliali denominata fattore di von Willebrand (VWF) che si trova sia nella parete vasale che nel plasma; il VWF, durante l’adesione piastrinica, si lega al recettore di una glicoproteina (GP) della superficie della membrana piastrinica (glicoproteina Ib).

Il collagene e la prima trombina formata nel sito della lesione attivano le piastrine. Queste reazioni attivano la fosfolipasi C, un enzima che idrolizza inositol-fosfolipidi. I prodotti di tale reazione attivano la proteinchinasi C e incrementano la concentrazione del Ca nel citosol delle piastrine, provocando una serie di eventi sovrapposti.

1. Le piastrine si modificano, sviluppando lunghi pseudopodi.

2. Un recettore si assembla sulla superficie della membrana piastrinica, originandosi dalle glicoproteine IIb e IIIa. Il fibrinogeno e altre proteine adesive si legano a tale recettore determinando l’aggregato piastrinico.

3. L’acido arachidonico si libera dai fosfolipidi di membrana ed è ossidato a prostaglandina H2, importante cofattore per l’attivazione piastrinica indotta dal collagene e a trombossano A2, che può anche attivare le piastrine.

4. Le piastrine secernono adenosina difosfato, che può anche attivare piastrine aderenti e reclutare nuove piastrine nell’ambito del coagulo emostatico in formazione.

5. Sulla membrana piastrinica, la membrana stessa va incontro a riorganizzazione con esposizione di fosfolipidi procoagulanti necessari prima che i complessi enzima/cofattore dell’emocoagulazione si formino. La secrezione del fattore V piastrinico dagli alfa-granuli fornisce un ulteriore componente chiave per uno dei complessi enzima/cofattore. Quindi, si determina l’aumento della trombina, che causa la coagulazione del fibrinogeno, si formano fasci di fibrina e si irradiano all’esterno dell’aggregato piastrinico aiutando ad assicurare il tappo emostatico.

6. Viene attivato un meccanismo intrapiastrinico con contrazione dell’actomiosina piastrinica. Il tappo emostatico si compatta e consolida, contribuendo ulteriormente alla sua stretta adesione al sito di lesione (v. anche Cap. 133).

Fattori plasmatici: le reazioni di emocoagulazione formano un secondo elemento chiave del tampone emostatico-coagulo di fibrina (v. Fig. 131-1). Irradiandosi dal tappo emostatico e ancorandolo, il coagulo di fibrina aggiunge il materiale necessario. La nomenclatura delle componenti di queste reazioni è elencata nella Tab. 131-1.

La coagulazione si realizza attraverso fasi successive. (1) Reazioni a cascata attraverso almeno due vie (la via intrinseca ed estrinseca) attivano proenzimi di proteasi a serina e generano un attivatore della protrombina, che è rappresentato da un complesso (di un enzima, il fattore Xa e due cofattori, il fattore Va e i fosfolipidi procoagulanti) sulla superficie delle piastrine attivate o su cellule tissutali. (2) L’attivatore della protrombina scinde la protrombina in due frammenti, uno dei quali è l’enzima trombina. (3) La trombina, attraverso il clivaggio di piccoli peptidi dalla catena a (fibrinopeptide A) e b (fibrinopeptide B) del fibrinogeno, dà origine a una molecola modificata (fibrina monomerica) che polimerizza per formare fibrina insolubile (fibrina polimerica). La trombina attiva pure il fattore XIII, enzima che catalizza la formazione di legami covalenti tra le molecole di fibrina, che legano tra di loro le molecole con formazione di un coagulo resistente alla dissoluzione.

Ioni Ca sono necessari per la maggior parte delle reazioni che portano alla formazione della trombina; così gli agenti chelanti il Ca (p. es., il citrato o l’acido etilendiaminotetracetico) vengono impiegati in vitro come anticoagulanti. Vari proenzimi di proteasi a serina contengono residui di acido g-carbossiglutamico che contiene due gruppi carbossilici legati al g-carbonio dell’acido glutamico. Il gruppo carbossilico in sovrannumero crea siti di legame per il Ca. Queste proteine che contengono residui dell’acido g-carbossiglutamico sono definite fattori della coagulazione vitamina K-dipendenti, poiché la vitamina K è necessaria per legare il gruppo carbossilico aggiuntivo all’acido glutamico. Tali proteine, se vengono sintetizzate in assenza della vitamina K, non possono legare il Ca come di norma, né possono avere la normale funzione nell’emocoagulazione.

Le reazioni che generano il complesso attivatore della protrombina possono prendere il via in vitro in seguito all’esposizione del plasma a una superficie caricata negativamente (p. es., il vetro o certe polveri diatomacee) o aggiungendo al plasma fattore tissutale (una lipoproteina tissutale). Nella prima reazione, il fattore XII, il chininogeno ad alto peso molecolare, la precallicreina e il fattore XI reagiscono con una superficie carica negativamente (reazioni di attivazione da contatto), per dare origine al fattore XI attivato. Il fattore XIa quindi attiva il fattore IX. Un attivatore del fattore X prende origine sotto forma di un complesso, il fattore IXa e due cofattori, il fattore VIIIa e fosfolipidi procoagulanti; il fosfolipide procoagulante è presente sulla superficie delle piastrine attivate o su cellule tissutali.

Le persone con un deficit ereditario del fattore XII, del chininogeno ad alto peso molecolare o della precallicreina non presentano un’anomala tendenza al sanguinamento, mentre quelli con un deficit ereditario del fattore XI possono presentare una sindrome emorragica di lieve entità. Perciò, deve esistere in vivo un meccanismo per attivare il fattore XI che scavalca il fattore XII, la precallicreina e il chininogeno ad alto peso molecolare. I pazienti con assenza del fattore VIII (emofilia A) o del fattore IX (emofilia B) presentano gravi emorragie (v. Emofilia, oltre); quindi la formazione del fattore VIIIa/IXa fosfolipide, attivatore del fattore X, è fondamentale per una normale emostasi.

Il trauma che lede i piccoli vasi sanguigni causa il contatto del fattore tissutale delle membrane cellulari con il sangue entro e intorno alla parete vasale. Presumibilmente i complessi fattore VII/ fattore tissutale vengono rapidamente formati con due conseguenze: (1) il legame al fattore tissutale rende possibile la comparsa di tracce di fattore Xa, preferibilmente e rapidamente, per convertire il fattore zimogeno VII in fattore VIIa. (2) Il fattore tissutale serve come cofattore per il fattore VIIa che permette al complesso fattore VIIa/fattore tissutale di attivare efficacemente i suoi substrati fisiologici, fattore IX e X.

Poiché il ruolo del fattore IXa nella coagulazione è di attivare il fattore X (v. Fig. 131-1), l’esposizione del plasma al fattore tissutale attiva il fattore X direttamente da parte del complesso fattore VIIa/fattore tissutale e indirettamente mediante i complessi fattore IXa/fattore VIIa/fosfolipidi. L’attivazione del fattore X richiede entrambe le vie per l’emostasi normale, probabilmente perché l’attività catalitica del fattore VIIa/fattore tissutale è inibita durante il processo di coagulazione da un meccanismo dipendente dal fattore Xa. Perciò, il fattore Xa ha un doppio ruolo regolatorio nella coagulazione dipendente dal fattore tissutale. Le molecole iniziano le reazioni trasformando il fattore VII legato al fattore tissutale a fattore VIIa. Tuttavia, con la formazione di fattore Xa, le molecole di fattore Xa cominciano a legarsi a un inibitore plasmatico delle proteasi plasmatica, definito inibitore della via del fattore tissutale. Il risultatante complesso inibitore della via del fattore tissutale/fattore Xa (inibitore della coagulazione associato alle lipoproteine/Xa) si lega al fattore VIIa sul fattore tissutale, determinando la nascita del complesso fattore VIIa/fattore tissutale/inibitore della via del fattore tissutale/fattore Xa che non ha attività catalitica. Questo meccanismo inibitorio probabilmente spiega perché gli emofilici sanguinano; cioè perché l’attivazione diretta operata dal complesso fattore VIIa/fattore tissutale del fattore X, che evita la necessità di fattore VIII e fattore IX, è insufficiente per un’emostasi normale.

In aggiunta all’attivazione del fattore VII da parte del fattore Xa, altre importanti reazioni di feedback sono: (1) l’attivazione del fattore VIII da parte di una concentrazione minima di trombina o di una concentrazione più alta di fattore Xa e (2) l’attivazione del fattore V da concentrazioni in tracce di trombina. Tale attivazione è essenziale per i fattori VIII e V per essere efficaci cofattori della coagulazione.

Meccanismi regolatori: i meccanismi di regolazione normalmente si innescano per impedire che le reazioni di emocoagulazione attivate causino trombosi locale o coagulazione intravascolare disseminata (CID). Questi meccanismi includono la neutralizzazione nel sangue degli enzimi e dei cofattori attivati coagulativi e l’eliminazione dei fattori coagulativi attivati, specialmente nella circolazione epatica.

In aggiunta all’inibitore della via del fattore tissutale, altri inibitori plasmatici delle proteasi (l’antitrombina III, l’a2-macroglobulina, l’a1-antiproteasi e il cofattore II eparinico) possono neutralizzare gli enzimi dell’emocoagulazione. Il più importante è l’antitrombina III (l’aggiunta di eparina al sangue in vitro converte l’antitrombina III da lento inibitore a inibitore istantaneo degli enzimi chiave trombina, fattore Xa e fattore IXa, che è il meccanismo dell’effetto terapeutico dell’eparina). Catene simil-epariniche sulla superficie luminale dell’endotelio vascolare potenziano la funzione dell’antitrombina III in vivo.

L’inibizione dei fattori VIIIa e Va coinvolge due proteine vitamina K-dipendenti, la proteina C e la proteina S. La trombina, legandosi a un recettore delle cellule endoteliali, chiamato trombomodulina, può clivare un piccolo peptide e quindi attivare così la proteina C. La proteina C attivata è una proteasi a serina, che (con la proteina S e con il fosfolipide procoagulante come cofattori) catalizza la proteolisi dei fattori VIIIa e Va, distruggendone la funzione cofattoriale.

Il fattore V Leiden è una mutazione genetica (sostituzione di un’arginina con una glutamina in posizione 506) che riduce la degradazione del fattore Va da parte della proteina C attivata. Lo stato eterozigote è estremamente comune (3-15%) nelle varie popolazioni (in media 7% negli USA) e determina un aumento di incidenza di tromboembolismo venoso. Queste osservazioni cliniche attestano l’importanza fisiologica del meccanismo proteina C/proteina S nella regolazione della emocoagulazione.

Il sistema fibrinolitico viene attivato dalla deposizione di fibrina. Dissolvendo la fibrina, questo sistema aiuta a tenere aperto il lume di un vaso sanguigno leso. Un equilibrio tra deposizione e lisi di fibrina mantiene e modifica il tampone emostatico durante la riparazione di un vaso leso. La plasmina è un potente enzima proteolitico che catalizza la fibrinolisi. La plasmina proviene da un precursore plasmatico inerte, il plasminogeno, attraverso il clivaggio di un singolo legame peptidico arginina-valina. Gli attivatori del plasminogeno catalizzano questo clivaggio. La fibrina è dapprima degradata in grandi frammenti (X e Y) e quindi in più piccoli frammenti (D e E). Questi frammenti solubili di degradazione della fibrina sono immessi nella circolazione.

Quando il fibrinogeno viene convertito in fibrina, diventano disponibili sulla superficie della molecola i residui della lisina, cui il plasminogeno può legarsi tenacemente mediante siti di legame per la lisina. Due tipi di attivatori del plasminogeno, che danno l’avvio alla lisi dei depositi di fibrina intravascolare, sono liberati dalle cellule endoteliali vascolari. Un tipo, l’attivatore tissutale del plasminogeno (tPA) è un debole attivatore quando libero in soluzione, ma diventa un efficiente attivatore quando è in prossimità del plasminogeno legato alla fibrina. Un secondo tipo, l’urochinasi, esiste sotto forma di catena singola e doppia con differenti proprietà funzionali. Le cellule endoteliali rilasciano urochinasi a singola catena attivatore del plasminogeno, che non può attivare il plasminogeno libero, ma, come il tPA, può prontamente attivare il plasminogeno se questo è legato alla fibrina. Tracce di plasmina possono clivare l’urochinasi attivatore del plasminogeno trasformandolo da composto a singola catena in uno a catena doppia, che può in seguito funzionare come un attivatore ugualmente potente del plasminogeno sia quando questo è presente libero in soluzione sia quando è legato alla fibrina. Le cellule epiteliali dei dotti escretori (p. es., dei tubuli renali, dei dotti mammari) secernono anch’esse urochinasi, che si ritiene l’attivatore fisiologico della fibrinolisi lungo tali sistemi tubulari. La streptochinasi, un prodotto batterico che normalmente non è presente nell’organismo, è un altro potente attivatore del plasminogeno. La streptochinasi e il tPA recombinante (alteplase) sono stati impiegati singolarmente in terapia per indurre la fibrinolisi in pazienti con patologia trombotica acuta.

Il plasma contiene un inibitore dell’attivazione del plasminogeno (PAI) e inibitori della plasmina che rallentano la fibrinolisi. Il PAI più importante è il PAI-1, che viene rilasciato dall’endotelio vascolare e dalle piastrine attivate. Il principale inibitore della plasmina è l’a2-antiplasmina, che può inattivare molto rapidamente la plasmina libera sfuggita a un coagulo di fibrina. Parte dell’a2-antiplasmina è anche legata alla fibrina dal fattore XIIIa durante la coagulazione. Essa regola l’attività del plasminogeno attivato in plasmina, sulla fibrina. Il plasma inoltre contiene una glicoproteina ricca in istidina, la quale non è un inibitore della serin-proteasi, ma che compete per il sito di legame della lisina sul plasminogeno, riducendo quindi la concentrazione plasmatica delle molecole di plasminogeno con i siti di legame della lisina liberi.

Diversi fattori prevengono l’eccessiva fibrinolisi. Il tPA e l’urochinasi liberati dalle cellule endoteliali hanno una vita media intravascolare breve per la loro rapida inattivazione da parte del PAI-1 e per la rapida clearance del flusso sanguigno attraverso il fegato (v. Fig. 131-2). L’attività del tPA e dell’attivatore del plasminogeno urochinasi a singola catena è notevolmente aumentata nel caso che il plasminogeno sia legato alla fibrina, che limita la fibrinolisi fisiologica alla fibrina stessa, senza che questo processo si accompagni alla proteolisi del fibrinogeno circolante. Inoltre, la plasmina sfuggita dalla superficie della fibrina è pressocché istantaneamente neutralizzata dall’a2-antiplasmina.

Quando i meccanismi regolatori falliscono, i pazienti possono presentare delle emorragie causate da una fibrinolisi eccessiva. Raramente, i pazienti hanno un deficit totale ereditario di a2-antiplasmina. La grave emorragia tissutale che presentano dopo lesioni insignificanti mostra che l’a2-antiplasmina è la chiave di regolazione della normale fibrinolisi. A volte, un paziente con malattie epatiche croniche scompensate possono presentare un sanguinamento incontrollato, che si ritiene derivare in parte da un deficit grave acquisito di a2-antiplasmina (secondario alla dimuita sintesi epatocellulare e all’aumentato consumo causato da un’aumentata attività dell’attivatore del plasminogeno). Un deficit acquisito dell’a2-antiplasmina può derivare da un consumo dell’inibitore nella fibrinolisi secondaria a una CID estesa. Ciò può contribuire alla tendenza al sanguinamento nei pazienti nei quali la CID complica un carcinoma della prostata o con leucemia acuta promielocitica.

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Esami di laboratorio

La Tab. 131-2 riassume i principali test di laboratorio per ogni fase dell’emostasi. I test di screening misurano gli effetti combinati di fattori che influenzano una fase particolare della coagulazione (p. es., il tempo di sanguinamento). Dosaggi specifici misurano il livello o la funzione di un fattore dell’emostasi (p. es., il dosaggio del fattore VIII). Test addizionali che possono misurare un prodotto o un effetto di un’attivazione patologica in vivo delle piastrine, della coagulazione o della fibrinolisi (p. es., il livello dei prodotti di degradazione della fibrina). I risultati dei test di screening e la conoscenza del disordine clinico fanno da guida nella selezione di indagini diagnostiche più specifiche.

Il tempo di sanguinamento deve essere determinato con un manicotto dello sfigmomanometro applicato all’arto superiore gonfiato fino a 40 mm Hg, per far sì che il coagulo emostatico venga tenuto contro una retropressione. Un dispositivo a molla monouso per il rilievo del tempo di sanguinamento viene utilizzato per fare un’incisione di 6-mm× 1 mm sulla parte volare dell’avambraccio. Si assorbe il sangue con l’orlo di una carta da filtro a intervalli di 30 s finché il sanguinamento non si arresti. Con questo metodo il limite superiore della norma per il tempo di sanguinamento è di 7,5 min. La trombocitopenia, disordini della funzione piastrinica e la malattia di von Willebrand (VWD) prolungano il tempo di sanguinamento, il quale invece non risulta prolungato nei disordini della fase della coagulazione. L’uso dell’aspirina nei 5-7 giorni precedenti prolunga anche il tempo di sanguinamento.

Il tempo di tromboplastina parziale (PTT) individua i casi di reazioni emocoagulative anomale innescate dall’esposizione del plasma a una superficie carica negativamente. Il plasma viene incubato per 3 min con un reagente che fornisce il fosfolipide procoagulante e una polvere tensioattiva (p. es., silicio micronizzato). Si aggiunge quindi Ca e si valuta il tempo di coagulazione. (Dal momento che i reagenti in commercio e la strumentazione variano notevolmente, ciascun laboratorio deve determinare il proprio range di normalità; di regola da 28 a 34 sec). Il PTT è sensibile a deficit di circa il 30-40% di tutti i fattori della coagulazione eccetto che per i fattori VII e XIII. Con rare eccezioni, un risultato normale esclude l’emofilia. L’eparina prolunga il PTT e quest’ultimo viene utilizzato spesso per il monitoraggio della terapia eparinica. Un tempo prolungato può anche essere causato da un deficit di uno o più fattori della coagulazione o dalla presenza di un inibitore di un fattore della coagulazione (p. es., un anticoagulante che inibisce il fattore VIII, v. Disordini della coagulazione da anticoagulanti circolanti, più avanti) o di un inibitore del fosfolipide procoagulante (inibitore del lupus-v. Disordini della coagulazione da anticoagulanti circolanti, oltre).

Se è presente un inibitore, mescolando il plasma del paziente 1:1 con un plasma normale, non risulterà un accorciamento del PTT entro i 5 s circa del tempo che si ottiene con il plasma normale da solo. Determinazioni degli specifici fattori della coagulazione possono in genere individuare la causa di un prolungato PTT, non prontamente spiegato sulla base degli altri rilievi clinici.

Nel test del tempo di protrombina (PT), il plasma viene ricalcificato in presenza di un’alta concentrazione di fattore tissutale (tromboplastina tissutale). Il test individua i casi in cui siano presenti anomalie dei fattori V, VII e X, della protrombina e del fibrinogeno; il PT normale varia da 10 e 12 sec, in rapporto al particolare reagente impiegato contenente fattore tissutale e di altri dettagli tecnici. Un PT più lungo di 2 s rispetto al valore normale, di controllo del laboratorio, deve essere considerato anormale e ne va indagato il motivo.

Il PT è un esame utile per lo screening di disturbi della coagulazione in varie condizioni acquisite (p. es., carenza di vitamina K, epatopatie, CID). Il PT viene anche impiegato per controllare la terapia con anticoagulanti cumarinici. Il range terapeutico del PT dipende dalla tromboplastina utilizzata in ogni laboratorio. Il rapporto internazionale normalizzato (INR, valore normale 0,9-1,1) è stato introdotto dalla WHO per standardizzare internazionalmente il controllo della terapia anticoagulante. L’INR è il rapporto del PT del paziente rispetto al controllo elevato all’indice di sensibilità internazionale (ISI), che viene determinato paragonando ogni reagente con la tromboplastina della WHO:

Per determinare il tempo di trombina, il plasma da saggiare e un plasma normale di controllo vengono fatti coagulare con l’aggiunta di un reagente contenente trombina bovina diluito in modo tale da dare un tempo di coagulazione di circa 15 sec per il plasma di controllo. Poiché il test è indipendente dalle reazioni che generano trombina, esso è usato per riconoscere specificamente le anomalie che interessano la reazione trombina-fibrinogeno: eparina, presenza in alta quantità di prodotti di degradazione della fibrina e alterazioni qualitative del fibrinogeno. È particolarmente utile per accertare se un campione di plasma contenga eparina (p. es., eparina residua non neutralizzata dopo un intervento di bypass extracorporeo o sangue contaminato prelevato tramite dispositivi tenuti pervi mediante lavaggi con eparina). Nel plasma che contiene eparina, il tempo di trombina risulta prolungato, ma quando il test viene ripetuto, sostituendo la trombina con la batroxobina (un enzima del veleno di serpente insensibile all’eparina e che converte direttamente il fibrinogeno in fibrina), il test risulterà normale.

La stabilità del coagulo di fibrina viene saggiata facendo coagulare 0,2 ml di plasma con 0,2 ml di cloruro di Ca e incubando un coagulo in 3 ml di una soluzione di NaCl e un altro coagulo in 3 ml di urea 5M per 24 ore a 37°C. La lisi del coagulo incubato in soluzione di NaCl indica un’eccessiva fibrinolisi. La lisi del coagulo incubato con urea indica un deficit di fattore XIII. Un test normale non esclude un’anomalia della fibrinolisi di lieve entità ma potenzialmente significativo dal punto di vista clinico (p. es., una riduzione del tasso plasmatico di a2-antiplasmina dal 10 al 30% del range normale).

Il test di paracoagulazione plasmatica con protammina garantisce lo screening dei monomeri solubili di fibrina nei pazienti con sospetta CID. Un decimo di volume di solfato di protammina all’1% viene mescolato con il plasma, che, dopo una breve incubazione a 37°C, viene esaminato per ricercare la presenza di precipitati filamentosi di fibrina. Un test positivo supporta ulteriormente la diagnosi di CID, ma un risultato negativo non la esclude. Un risultato falsamente positivo può essere causato da difficoltà nel prelievo venoso o di un’inadeguata anticoagulazione del campione di sangue.

I prodotti di degradazione della fibrina possono essere misurati con due test. Nel test per il D-dimero, il plasma è aggiunto non diluito e a varie diluizioni a delle particelle di lattice ricoperte di anticorpi monoclonali che reagiscono esclusivamente con derivati della fibrina che contengono D-dimeri, generati quando la fibrina che ha subito legami covalenti crociati è degradata dalla plasmina. Le misture sono osservate per l’agglutinazione delle particelle di lattice. Gli anticorpi non reagiranno con il fibrinogeno, ragione per la quale il test può essere effettuato con del plasma, né con i prodotti di degradazione del fibrinogeno, poiché questi non hanno subito i legami covalenti crociati. Perciò il test è specifico per i prodotti di degradazione della fibrina. Il plasma non diluito delle persone normali darà un test negativo (< 0,25 mg/ml di D-dimero). Il siero normale può contenere piccole quantità (< 10 mg/ml) di residui di prodotti di degradazione del fibrinogeno. La presenza di agglutinazioni a diluizioni del siero di 1:20 indica l’aumentata quantità di prodotti di degradazione della fibrina ( 40 mg/ml).

Un tempo di lisi dell’euglobulina fa di solito parte dello screening, se si sospetti un’aumentata attività fibrinolitica (v. Cap. 132). Le euglobuline vengono fatte precipitare mediante diluizione e acidificazione del plasma. La frazione euglobulinica, che è relativamente priva di inibitori della fibrinolisi, viene successivamente fatta coagulare con la trombina mentre si misura il tempo impiegato dal coagulo per dissolversi. Un tempo di lisi normale è > 90 min; un tempo più corto indica un incremento dell’attività plasmatica dell’attivatore del plasminogeno (p. es., come in alcuni pazienti con epatopatia avanzata). Anche una ridotta concentrazione di fibrinogeno plasmatico, comportando la dissoluzione di un coagulo più piccolo, può causare un tempo più corto.

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