14. MALATTIE DEL SISTEMA NERVOSO

167. DOLORE

Il dolore è una complessa sensazione soggettiva che riflette un danno tessutale, potenziale o reale unitamente alla risposta affettiva al danno stesso.

(v. anche Cap. 294 e le sottovoci alla voce Dolore nell’indice)

Sommario:

Classificazione
Valutazione del dolore
Terapia

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Classificazione

Il dolore acuto, segnale biologico essenziale per quantificare l’estensione del danno, è un dolore di durata breve o che si preveda che duri di solito < 1 mese. È spesso associato ad ansia e a iperattività del sistema nervoso autonomo adrenergico (p. es., tachicardia, aumento dell’attività respiratoria e della PA, diaforesi, dilatazione pupillare).

Il dolore cronico viene generalmente definito in modo generico e arbitrario come un dolore persistente > un mese successivo alla risoluzione di un danno tissutale acuto; il dolore persistente o ricorrente > 3 mesi o un dolore associato a danno tissutale ritenuto di tipo evolutivo. Il dolore cronico non ha alcun ruolo biologico adattativo. I segni vegetativi (p. es., debolezza, disturbi del sonno, diminuzione dell’appetito, perdita di gusto per il cibo, diminuzione di peso, scomparsa della libido e costipazione) si sviluppano spesso in modo graduale, con successiva insorgenza di depressione.

Il dolore può essere ampiamente classificato come somatogeno (organico), motivabile in termini di meccanismi fisiologici o psicogeno, esistendo in assenza di una patologia organica sufficiente a motivare il grado del dolore e dell’invalidità e ritenuto come correlato a problemi psicologici (v. Sindromi Dolorose Psicogene, più avanti). Un dolore psicogeno non va diagnosticato senza specifiche prove. Se non può essere identificato un processo somatogeno e non sia chiaro il ruolo di un processo psicogeno, il dolore deve essere ritenuto idiopatico.

Il dolore somatogeno potrà essere nocicettivo o neuropatico. Il dolore nocicettivo è reputato essere commisurato alla progressiva attivazione delle fibre nervose algosensitive, sia somatiche che viscerali. Quando sono colpiti i nervi somatici, il dolore è tipicamente percepito come bruciante o pressorio (p. es., la maggior parte dei dolori da cancro).

Il dolore neuropatico è conseguenza di una disfunzione nel sistema nervoso; si ritiene che venga sostenuto da processi somatosensoriali aberranti a livello del sistema nervoso periferico, nel SNC o in entrambi (v. Dolore neuropatico, più avanti). Il dolore può coinvolgere la funzione efferente del sistema nervoso simpatico (dolore di tipo simpatico) o una lesione patologica periferica identificabile (p. es., la compressione di un nervo, la formazione di un neuroma) oppure una patologia del SNC (p. es., l’ictus, una lesione del midollo spinale). Generalmente, il dolore è parte di una definita alterazione neurologica. Il dolore ritenuto interessare i nervi periferici può essere suddiviso in mononeuropatia periferica o polineuropatia; la polineuropatia dolorosa più comune è conseguenza del diabete. Il dolore interessante il SNC, chiamato dolore da deafferentazione, può essere suddiviso in una varietà di tipologie, quali il dolore centrale dopo ictus o il dolore da arto fantasma dopo un’amputazione.

Alcune sindromi dolorose presentano una fisiopatologia multifattoriale; p. es., la maggioranza delle sindromi da dolore neoplastico ha una componente nocicettiva preminente, ma può trattarsi anche di dolori neuropatici dovuti al danno di un nervo causato dal tumore o secondari ai chemioterapici. Può anche trattarsi di un dolore psicogeno correlato alla perdita di una funzione e alla paura per l’evoluzione della malattia. Il dolore nocicettivo può predominare nelle sindromi dolorose dovute a danno articolare cronico o a lesioni ossee (p. es., artrite, anemia falciforme, emofilia).

La distinzione tra dolore continuo e acuto ricorrente (come nell’anemia falciforme) rappresenta un altro aspetto importante della classificazione. I protocolli di trattamento potranno differire a seconda della descrizione temporale del dolore.

Molte sindromi dolorose sono difficili da classificare. Per esempio, nella maggior parte dei pazienti, la cefalea cronica (v. Cap. 168) comporta probabilmente un’interazione complessa tra alterazioni nocicettive nei muscoli e nei vasi ematici con fattori psicologici.

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Valutazione del dolore

Una causa organica deve essere sempre ricercata, perfino se è verosimile un preminente contributo psicologico al dolore, in quanto il dolore è trattato meglio mediante la rimozione della causa sottostante. Una volta che sia stato escluso un motivo organico, possono essere utili test aggiuntivi. Il senso illusorio di evoluzione che tale test dà sia al medico che al paziente può perpetuare un comportamento maladattativo e ostacolare il ritorno alla normale funzionalità.

L’anamnesi dovrà comprendere la gravità, la sede, la qualità, la durata, il decorso, la sequenza temporale (inclusa la frequenza delle remissioni e il grado delle oscillazioni), i fattori peggiorativi e lenitivi, nonché i fattori di comorbilità associati al dolore (evidenziando le problematiche psicologiche, la depressione e l’ansia). Si dovranno determinare l’uso, l’efficacia e gli effetti collaterali dei farmaci e degli altri trattamenti. Al paziente andrà chiesto se abbia in corso una causa legale o un procedimento di risarcimento per danni. Una storia personale o familiare di dolore cronico può spesso servire a chiarire il problema. Si deve valutare dettagliatamente il livello funzionale del paziente, focalizzandosi sui rapporti familiari (inclusa la vita sessuale), le relazioni sociali, il lavoro. Chi raccoglie l’anamnesi dovrà evidenziare come il dolore provato dal paziente incida sulle sue relazioni con gli altri e se comprometta la vita normale. Andranno valutati l’utile secondario di una malattia, la psicopatologia attuale e quella premorbosa del paziente, nonché il ruolo che la famiglia ha nella patologia.

Dovrà essere stabilito quale significato abbia il dolore per il paziente. Lamentare un dolore è più accettato socialmente piuttosto che riportare ansia o depressione; una terapia appropriata dipende spesso dalla determinazione di queste percezioni, che vengono descritte in modo similare ma esperite in maniera differente. Parimenti, si dovrà distinguere il dolore dalla sofferenza, specialmente nel paziente neoplastico, la cui sofferenza può essere dovuta molto di più alla perdita della funzione e alla paura della morte imminente che non al dolore. La percezione del dolore da parte del paziente può essere più significativa dell’anatomia patologica intrinseca della malattia stessa.

L’esame obiettivo è essenziale e aiuta spesso a identificare le cause che sottendono il dolore e a valutare ulteriormente il grado di impedimento funzionale. Si devono inoltre eseguire appropriati esami rx e di laboratorio.

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Terapia

Gli analgesici non oppiacei: questi farmaci, specialmente il paracetamolo e i FANS sono spesso efficaci a calmare dolori lievi e moderati (v. anche la Tab. 167-1 e Artrite reumatoide al Cap. 50). I FANS differiscono per costo, durata di azione ed effetti collaterali; i risultati per un dato paziente spesso non sono predittivi. Se le dosi di partenza sono ben tollerate ma non forniscono un’adeguata analgesia può essere corretto utilizzare dosi maggiori. Se si ottiene ulteriore analgesia ma questa è ancora inadeguata, non è stata raggiunta la dose massima; i dosaggi possono pertanto essere ulteriormente aumentati. Tuttavia, per limitare i rischi di tossicità, la dose non deve essere aumentata più di 1-1/2 volta, 2 volte la dose raccomandata. I pazienti devono essere sottoposti a controlli vòlti alla ricerca di sangue occulto nelle feci o alterazioni dell’ematocrito e degli elettroliti, nonché sottoposti a prove di funzionalità epatica o renale. A differenza dei derivati dell’oppio, i FANS non producono dipendenza fisica o tolleranza.

Agonisti oppiacei (narcotici): "oppioide" è un termine generico per sostanze naturali o sintetiche che si legano a specifici recettori oppiacei del SNC, producendo un effetto agonista.

Gli analgesici oppiacei sono estremamente utili nel trattamento del dolore acuto grave, compreso quello postoperatorio e il dolore cronico, come il dolore neoplastico. Sono spesso poco utilizzati, con conseguente dolore e sofferenza inutili, in quanto il dosaggio richiesto è spesso sottostimato, la loro durata d’azione e i rischi di effetti collaterali sono sopravvalutati e i medici e gli infermieri sono spesso preoccupati in modo immotivato per gli effetti di dipendenza (v. Dipendenza da oppiacei nel Cap. 195). Sebbene la dipendenza fisica colpisca praticamente tutti i pazienti in cui il dolore cronico sia stato per lungo tempo trattato con oppiacei, questa è molto rara nei pazienti senza una storia di abuso di sostanze e non deve essere presa in considerazione qualora si decidesse di iniziare o incrementare le dosi nei pazienti con dolore grave.

La morfina, un alcaloide dell’oppio, ne è il prototipo. In un paziente con dolore acuto che non ha sviluppato tolleranza al farmaco, essa ha un effetto analgesico a dosi (circa 10 mg IM) che non alterano gravemente la coscienza. La morfina influenza sia l’iniziale percezione periferica del dolore che la risposta emotiva a esso. I pazienti con intenso dolore avvertono raramente l’euforia causata dalla morfina, ma possono presentare sonnolenza o senso di rilassamento, in parte anche in seguito alla riduzione del senso di sofferenza.

Per il dolore acuto, la morfina viene generalmente somministrata IM o EV; il solfato di morfina è il sale idrosolubile più comunemente usato. Tradizionalmente, la morfina è stata considerata inefficace se assunta PO. Essa viene rapidamente metabolizzata, principalmente nel fegato ed escreta con le urine. Tuttavia, aumentando progressivamente la dose, la morfina PO può essere molto efficace. La morfina a rilascio controllato assunta PO è il farmaco più comunemente utilizzato per trattare il dolore da neoplasia di grave entità. Con dosi molto basse di morfina per via intraspinale (p. es., 5-10 mg per via epidurale o 0,5-1 mg per via intratecale) si può ottenere per lungo tempo (fino a 24 h) un’attenuazione del dolore nel postoperatorio; con adeguamenti del dosaggio, gli oppiacei a somministrazione intraspinale possono essere utilizzati per il trattamento a lungo termine in pazienti selezionati.

Gli effetti negativi della morfina sono dose dipendenti (v. Tab. 167-2). La morfina causa la contrazione della muscolatura liscia periferica, la cui più importante conseguenza è la riduzione dei movimenti peristaltici del tratto gastro-intestinale, con conseguente stipsi (effetto utile nel trattamento della diarrea). La morfina causa dilatazione delle venule (vasi di capacitanza). Nei pazienti con ipovolemia o in persone che assumono bruscamente la stazione eretta, si può avere ipotensione. Questo effetto si verifica di rado con l’assunzione prolungata. La morfina 6-glucuronide (un metabolita attivo della morfina, potente, escreto per via renale) può causare una risposta esagerata in alcuni pazienti con insufficienza renale che ricevono dosi multiple di morfina.

Gli altri agonisti degli oppiacei comprendono la codeina (un derivato dell’oppio), il fentanil, l’idromorfone, il levorfanolo, la meperidina e il metadone (oppiacei di sintesi), l’ossicodone (un congenere di sintesi della morfina), l’oximorfone e il propoxifene, il quale è chimicamente affine al metadone. L’abituale dosaggio, la potenza, la durata d’effetto e gli effetti indesiderati sono riportati nella Tab. 167-2.

Un farmaco può essere preferito in base all’esperienza favorevole, al minor costo (il metadone è meno costoso), alla disponibilità, alla via di assunzione o alla durata d’azione. Gli oppiacei a breve emivita (quali la morfina e l’idromorfone) devono essere adoperati come agenti di prima scelta nel dolore acuto ma possono essere sostituiti con farmaci ad azione più duratura, se il dolore persiste.

La conoscenza delle dosi equivalenti tra i vari farmaci oppiacei (v. Tab. 167-3) è di fondamentale importanza per cambiare farmaco o schema di somministrazione. La tolleranza crociata è incompleta e perciò, quando un farmaco viene sostituito, la dose equianalgesica andrà ridotta del 50%. L’unica eccezione è rappresentata dal metadone, il quale deve essere ridotto del 75-90%.

Poiché la risposta individuale varia molto, il dosaggio degli oppiacei deve essere modificato a seconda della risposta di ogni paziente. Per i pazienti affetti da dolore acuto che non hanno mai assunto in precedenza gli oppiacei, il controllo frequente della diminuzione del dolore, della sedazione, della frequenza respiratoria e della pressione arteriosa guida l’adeguamento della dose. La sensibilità agli oppiacei è aumentata negli anziani; per ottenere lo stesso grado di analgesia, questi richiedono una dose iniziale più bassa e aumenti del dosaggio più contenuti rispetto ai pazienti più giovani e sono più predisposti agli effetti collaterali. Inizialmente, il farmaco può essere somministrato su richiesta del paziente; la maggior parte degli oppiacei deve essere somministrata almeno ogni 3 h e molti ogni 2 h.

Poiché livelli stabili non si raggiungono fino a che non siano trascorse 4-5 emivite, i farmaci a emivita lunga (particolarmente il levorfanolo e il metadone) presentano il rischio di tossicità ritardata, qualora aumentino i livelli plasmatici. Gli oppiacei a rilascio controllato necessitano solitamente di diversi giorni per raggiungere livelli plasmatici stabili.

La tolleranza (il bisogno di incrementare la dose per mantenere l’effetto) sembra essere una causa poco frequente della diminuzione dell’efficacia degli oppiacei durante la terapia a lungo termine. La necessità di aumentare le dosi riflette in genere il peggioramento della patologia di base, con evoluzione del dolore. Anche se la tolleranza agli effetti analgesici può essere concomitante, essa raramente rappresenta l’unica ragione per aumentare il dosaggio. Il timore della tolleranza non dovrà ostacolare l’uso convenientemente tempestivo e aggressivo di un farmaco oppiaceo. L’instaurarsi della dipendenza e degli altri effetti varia da un apparato all’altro; p. es., la tolleranza all’effetto costipante si sviluppa lentamente, ma la tolleranza alla depressione respiratoria o alla nausea insorge solitamente in modo precoce, dopo l’inizio del trattamento.

Gli oppiacei devono essere somministrati con cautela nei pazienti affetti da insufficienza renale, patologie polmonari ostruttive croniche (a causa dell’effetto deprimente il respiro), epatopatie, encefalopatia preesistente, oppure demenza. I neonati, specie se prematuri, sono molto sensibili agli oppiacei, poiché non dispongono dei sistemi metabolici adeguati per eliminarli.

La titolazione della dose rappresenta il riferimento più importante per individuare la dose di somministrazione ottimale. La titolazione della dose prevede aumenti seriati della stessa, fino a trovare un equilibrio favorevole tra analgesia ed effetti collaterali. Se tale equilibrio non è raggiungibile, il farmaco è considerato inutile. Una tecnica efficace per la titolazione della dose si basa sulle "dosi di salvataggio". Con questa metodica si tratta il dolore che insorge durante il periodo in cui le dosi vengono aumentate progressivamente. Oltre alla somministrazione delle dosi regolari orarie o durante l’assunzione di farmaci a lunga durata, si aggiunge, se necessario, una dose extra di un farmaco a breve emivita q 2 h. L’entità della dose di salvataggio è stabilita empiricamente ed è correlata a quella della somministrazione di base, ammontando generalmente al 5-10% della dose totale giornaliera. Qualora siano necessarie molte dosi di salvataggio o se persistesse il dolore, si potrà aumentare giornalmente la somministrazione di base mediante la somministrazione di una dose pari al totale di quelle di salvataggio necessarie.

Schemi di somministrazione: se possibile, gli oppiodi devono essere assunti PO per prolungarne gli effetti ed evitare fluttuazioni rapide dei livelli plasmatici. La morfina a lento rilascio o le compresse di ossicodone (intervalli di dose di 8-12 h) e il fentanil transdermico (intervalli di dose di 2-3 giorni) rendono possibile un dosaggio saltuario. Per quanto riguarda la via parenterale, l’assunzione di boli ripetuti risulta più confortevole per il paziente se somministrata EV piuttosto che IM. L’infusione EV o SC continua andrà presa in considerazione qualora le dosi parenterali ripetute producano un "prominent bolus effect", cioè una tossicità da picco di concentrazione, precoce durante gli intervalli di dosaggio o dei dolori a insorgenza più tardiva, a bassi livelli di concentrazione. Per consentire dosi supplementari, possono essere aggiunti all’infusione sistemi di analgesia controllati dal paziente (mediante i quali il paziente può regolare il rilascio di una quota addizionale di farmaco).

La somministrazione epidurale e intratecale di oppiacei richiede particolare esperienza. Essa può dare un’analgesia efficace, con pochi effetti collaterali, mediante l’attivazione dei recettori spinali per gli oppiacei. Tuttavia, i costi e la diffusione del farmaco al di sopra del livello spinale, con effetti tossici tardivi dopo una somministrazione acuta, rappresentano le maggiori limitazioni di questa tecnica.

Effetti collaterali degli oppiacei: la stipsi, un frequente effetto collaterale, dovrà essere trattata aumentando il contenuto delle fibre nella dieta > 10 g/die (a meno che vi sia occlusione intestinale) e mediante la prescrizione di ammorbidenti delle feci (p. es., docusate sodio 100 mg bid o tid), generalmente insieme a un lassativo stimolante (p. es., la senna). La dose del lassativo stimolante è inizialmente bassa, ma, se necessario, può essere aumentata. La stipsi persistente può essere trattata con un lassativo osmotico (p. es., il magnesio citrato) somministrato ogni 2-3 giorni o con lattuloso somministrato quotidianamente (p. es., 15 ml bid).

La sedazione può essere specificamente trattata con il metilfenidato o la destroanfetamina, iniziando con 5 mg PO 1-2 volte/die, aumentando fino a una dose efficace. La dose massima raramente oltrepassa i 60 mg/die.

La nausea può essere trattata con idrossizina 25-50 mg PO/die, metoclopramide 10-20 mg PO q 6 h, oppure mediante una fenotiazina antiemetica (p. es., proclorperazina 10 mg PO o 25 mg rettale q 6 h).

La depressione respiratoria è rara nei pazienti sottoposti alla terapia a lungo termine, in quanto si sviluppa precocemente la tolleranza a questo effetto; se insorge la depressione respiratoria, andrà ricercato il processo patologico predisponente. Se fosse necessario trattare la depressione respiratoria in un paziente con dipendenza fisica, dovranno essere lentamente somministrate EV soluzioni diluite di naloxone (0,4 mg diluiti in 10 ml di fisiologica allo 0,9%), titolate alla frequenza respiratoria, non alla vigilanza, con l’accortezza di evitare la sindrome acuta da astinenza (v. Antagonisti degli oppiacei, oltre).

Agonisti-antagonisti: questi farmaci sono dei potenti analgesici con un minor potenziale di abuso rispetto gli agonisti degli oppiacei; la loro attività antagonista può indurre una sindrome da astinenza nei pazienti già dipendenti da oppiacei. La pentazocina, un debole antagonista con considerevole attività analgesica, è l’unico agonista-antagonista somministrabile PO (v. Tab. 167-2). Altri farmaci di questa classe comprendono la buprenorfina, il butorfanolo, la dezocina e la nalbufina.

Antagonisti degli oppiacei: queste sostanze simil-oppiacee si legano ai recettori oppiacei ma hanno un’attività bassa o non agonista.

Il naloxone, un antagonista oppiaceo quasi esclusivo, può annullare gli effetti degli oppiodi. Agisce in pochi minuti quando somministrato EV e leggermente meno rapidamente quando somministrato IM. Tuttavia, la durata dell’effetto antagonista è spesso più breve della durata della depressione respiratoria indotta dagli stupefacenti; sono pertanto necessarie dosi ripetute di naloxone e uno stretto controllo clinico. La dose d’attacco, per i pazienti senza tolleranza per gli oppiacei, affetti da sovradosaggio acuto degli stessi, è di 0,4 mg EV q 2-3 min al bisogno. Per i pazienti che ricevono una terapia oppiacea a lungo termine, il naloxone deve essere usato solo per trattare la depressione respiratoria e deve essere somministrato con cautela per evitare lo scatenarsi di una sindrome d’astinenza o dolori recidivanti. Una dose di partenza ragionevole è di 0,04 mg (una fiala da 0,4 mg diluita in 10 ml di fisiologica) EV q 2-3 min secondo necessità.

Il naltrexone è un farmaco antagonista degli stupefacenti, attivo PO ed è somministrato come adiuvante nella cura della dipendenza da oppiodi e da alcol. Ha una lunga durata d’azione ed è generalmente ben tollerato.

Terapie analgesiche non farmacologiche: le terapie analgesiche non farmacologiche possono essere impiegate in pazienti selezionati affetti da dolore cronico; comprendono approcci non invasivi (p. es., la stimolazione nervosa elettrica transcutanea, la diatermia) e speciali tecniche anestetiche, neurochirurgiche e invasive di neurostimolazione (v. Tab. 167-4 e Sindromi Dolorose Psicogene e Sindrome da dolore regionale complesso, oltre). Anche se ampie casistiche ne riportano l’efficacia, non sono stati condotti studi controllati su queste tecniche. Non è stato ancora definito esattamente il ruolo di queste nel trattamento del dolore neoplastico; gli approcci invasivi sono più utili nel trattamento del dolore localizzato. Per la loro esecuzione è richiesta una particolare perizia, disponibile solo in alcuni centri. Andranno utilizzate solo se le tecniche non invasive sono risultate inefficaci; un’eccezione è rappresentata dalla tecnica del blocco neurolitico del plesso celiaco per il dolore addominale, in cui i benefici del trattamento precoce sembrano essere superiori ai rischi potenziali.

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