16. MALATTIE DELL’APPARATO CARDIOVASCOLARE

199. IPERTENSIONE ARTERIOSA

Aumento della PA sistolica e/o diastolica, sia primario che secondario.

(Per l’ipertensione in gravidanza, v. Cap. 250.)

Sommario:

Prevalenza
Eziologia e patogenesi
Anatomia patologica
Emodinamica
Sintomi e segni
Diagnosi
Prognosi
Terapia


Prevalenza

Si stima che negli USA ci siano circa 50 milioni di pazienti ipertesi (soggetti con PA sistolica  140 mm Hg e/o diastolica < 90 mm Hg o in terapia con farmaci antiipertensivi). Per ragioni sconosciute, sembra che la prevalenza dell’ipertensione sia in diminuzione negli USA (v. Tab. 199-1). L’ipertensione è più frequente negli adulti di razza nera (32%) piuttosto che di razza bianca (23%) o ispanici (23%) e anche la morbilità e la mortalità ad essa correlate sono maggiori nei neri. La PA diastolica aumenta con l’età sino a 55 o 60 anni.

La prevalenza di ipertensione sistolica isolata (ISI, con pressione sistolica  140 mm Hg e diastolica < 90 mm Hg) aumenta con l’età fino ad almeno 80 anni. Se si considerano gli individui con ISI e ipertensione diastolica, > 50% degli uomini di razza bianca o nera e > 60% delle donne al di sopra di 65 anni sono ipertesi. L’ISI ha una prevalenza maggiore nel sesso femminile in entrambe le razze. I dati di prevalenza, rilevati principalmente da ampi programmi di screening come il "National Health and Nutrition Examination Survey", si basano su una determinazione singola o su più rilievi dei valori pressori, eseguiti in occasione di un’unica visita medica. Perciò, queste percentuali sono superiori rispetto a quelle che sarebbero state ottenute attraverso il controllo della PA nel tempo (regressione verso la media). Nell’85-90% dei casi, l’ipertensione è primitiva (essenziale); nel 5-10%, l’ipertensione è secondaria a nefropatia bilaterale e solo nell’1-2% dei casi è dovuta a condizioni potenzialmente curabili.

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Eziologia e patogenesi

Ipertensione primitiva: l’ipertensione primitiva (essenziale) ha un’eziologia ignota; è improbabile che le diverse alterazioni emodinamiche e fisiopatologiche che la caratterizzano derivino da una singola causa. L’ereditarietà è un fattore predisponente, sebbene il meccanismo esatto non sia chiaro. Fattori ambientali (p. es., apporto esogeno di Na, obesità, stress) sembrano agire soltanto in persone geneticamente predisposte. Reni perfusi isolati di ratti Dahl "salt sensitive" (geneticamente predisposti a sviluppare ipertensione quando sottoposti a una dieta ricca di sale) non eliminano liquidi o Na altrettanto rapidamente di reni di ratti Dahl "salt resistant", anche prima che si sviluppi ipertensione.

I meccanismi patogenetici che sono alla base di tale patologia devono provocare un aumento delle resistenze vascolari periferiche totali (RPT) mediante vasocostrizione, un incremento della gittata cardiaca (GC), o entrambi, in quanto la PA è uguale alla GC (flusso) moltiplicata per le resistenze. Sebbene in genere si ritenga che l’espansione del volume intravascolare o extravascolare sia importante, in realtà essa può elevare i valori di PA solo provocando un aumento della GC (grazie all’aumento del ritorno venoso al cuore) o delle RPT (perché causa vasocostrizione) o entrambe le cose insieme; frequentemente, l’espansione di volume non ha nessuno di questi effetti.

In alcuni casi di ipertensione, sono state descritte anomalie del trasporto di Na attraverso la parete cellulare per un difetto o per l’inibizione della pompa Na-K (ATPasi Na+, K+) o per un incremento della permeabilità al Na+. Il risultato netto di queste alterazioni è un incremento del Na intracellulare che rende la cellula più sensibile allo stimolo simpatico. Dal momento che il Ca segue il Na, si ritiene che l’accumulo intracellulare di Ca (e non il Na di per sé) sia responsabile dell’aumentata sensibilità allo stimolo simpatico. L’ATPasi Na+, K+ può anche essere responsabile del trasferimento della noradrenalina all’interno dei neuroni simpatici, dove tale neurotrasmettitore viene inattivato. Di conseguenza, l’inibizione di questo meccanismo potrebbe, in linea teorica, amplificare l’effetto della noradrenalina. Difetti nel trasporto di Na sono stati descritti in bambini normotesi, figli di ipertesi.

La stimolazione del sistema nervoso simpatico induce un aumento della PA, di solito in misura maggiore nei pazienti ipertesi o nei soggetti che successivamente sviluppano ipertensione piuttosto che nei normotesi. Non è noto se tale iperresponsività dipenda direttamente dal sistema nervoso simpatico oppure dal miocardio e dal muscolo liscio vasale che il simpatico innerva, ma può essere spesso rilevata prima che si sviluppi un’ipertensione arteriosa persistente nel tempo. Un’elevata frequenza cardiaca a riposo, che può essere l’epifenomeno di un’aumentata attività simpatica, è un dato altamente predittivo dell’insorgenza di ipertensione arteriosa in futuro. Alcuni pazienti ipertesi hanno livelli di catecolamine plasmatiche più alti del normale, specialmente nelle fasi più precoci, quando incomincia a instaurarsi lo stato ipertensivo.

I farmaci che riducono l’attività simpatica riducono frequentemente i valori pressori dei pazienti con ipertensione primaria. Tuttavia, tale osservazione non può essere considerata come la dimostrazione che il sistema nervoso simpatico sia il fattore causale dell’ipertensione primitiva. Nei pazienti ipertesi i riflessi barocettoriali tendono a sostenere anziché controbilanciare lo stato ipertensivo, fenomeno noto come "resetting del sistema di controllo della pressione", che comunque può costituire un effetto, piuttosto che una causa, dell’ipertensione. Un alterato sistema di deposito della noradrenalina con conseguente incremento dei suoi livelli circolanti è stato descritto in alcuni pazienti ipertesi.

Nel sistema renina-angiotensina-aldosterone, l’apparato iuxtaglomerulare contribuisce alla regolazione del volume circolante e della pressione arteriosa. La renina, enzima proteolitico sintetizzato nei granuli delle cellule dell’apparato iuxtaglomerulare, catalizza la conversione della proteina angiotensinogeno in angiotensina I, un decapeptide. Questo prodotto inattivo è a sua volta trasformato da un enzima di conversione, presente soprattutto nei polmoni ma anche nel rene e nel cervello, in un octapeptide, l’angiotensina II, che è un potente vasocostrittore e stimola anche il rilascio di aldosterone. È presente in circolo anche il des-ASP eptapeptide (angiotensina III), attivo quanto l’angiotensina II nella stimolazione del rilascio di aldosterone, ma molto meno attivo come agente vasocostrittore.

La secrezione di renina è controllata da almeno quattro meccanismi che non si escludono l’un l’altro, ma possono coesistere: un recettore vascolare renale risponde alle modificazioni della tensione parietale dell’arteriola afferente; un recettore della macula densa rileva modificazioni nella velocità di escrezione o nella concentrazione di NaCl nel tubulo distale; l’angiotensina circolante esercita un feedback negativo sul rilascio di renina; il sistema nervoso simpatico stimola la secrezione di renina attraverso i nervi renali, effetto mediato dai b-recettori.

L’attività reninica plasmatica (ARP) risulta di solito normale nei pazienti affetti da ipertensione primitiva, sebbene possa essere ridotta in circa il 25% ed elevata in circa il 15% dei casi. È più probabile che l’ipertensione sia associata a bassi livelli di renina nei soggetti di razza nera e negli anziani. La fase accelerata (maligna) dell’ipertensione di solito si accompagna ad aumento della ARP (v. Nefrosclerosi arteriolare con ipertensione maligna nel Cap. 228). Sebbene generalmente si ritenga che l’angiotensina sia responsabile dell’ipertensione nefrovascolare (v. dopo), almeno nelle sue fasi iniziali, non c’è accordo circa il ruolo del sistema renina-angiotensina-aldosterone nei pazienti affetti da ipertensione primitiva, compresi quelli con elevata ARP.

Secondo la teoria del mosaico, l’aumento della PA si mantiene nel tempo per la compartecipazione di diversi fattori, anche se solo uno di essi è inizialmente responsabile; p. es., il sistema nervoso simpatico e quello renina-angiotensina-aldosterone possono interagire contribuendo entrambi a perpetuare lo stato ipertensivo. L’innervazione simpatica dell’apparato iuxtaglomerulare renale libera renina; l’angiotensina stimola i centri autonomici cerebrali ad aumentare l’attività simpatica. L’angiotensina stimola anche la produzione di aldosterone, che causa ritenzione di Na; l’eccessivo livello di Na intracellulare aumenta la reattività della cellula muscolare liscia vasale alla stimolazione simpatica.

L’ipertensione genera ipertensione. Quando uno stato ipertensivo dovuto a una causa identificabile (p. es., liberazione di catecolamine da un feocromocitoma, di renina e angiotensina per una stenosi dell’arteria renale, di aldosterone da un adenoma della corteccia surrenalica) persiste per un certo tempo, altri meccanismi vengono coinvolti. L’ipertrofia e l’iperplasia delle cellule muscolari lisce delle arteriole, dovute a uno stato ipertensivo di lunga durata, riducono il calibro del lume aumentando conseguentemente le RPT. Inoltre, l’accorciamento del muscolo liscio ipertrofico della parete arteriolare ispessita ridurrà il raggio del lume già ristretto di un valore di gran lunga superiore rispetto a quello che si avrebbe in caso di muscolo e lume vasale normali. Ciò può spiegare perché, più a lungo persiste uno stato ipertensivo, meno facilmente un intervento chirurgico correttivo in caso di ipertensione secondaria ripristinerà i valori pressori normali.

La deficienza di un vasodilatatore piuttosto che l’eccesso di una sostanza vasocostrittrice (p. es., angiotensina, noradrenalina) può causare ipertensione. Si incomincia ora a studiare il sistema della callicreina, responsabile della produzione di bradichinina, un potente vasodilatatore. Estratti della regione midollare renale contengono sostanze vasodilatatrici, tra cui un lipide neutro e una prostaglandina; l’assenza di questi vasodilatatori per una nefropatia o per nefrectomia bilaterale indurrebbe uno stato ipertensivo. I soggetti anefrici presentano caratteristicamente una modesta ipertensione sensibile al bilancio di liquidi e di sodio (ipertensione renopriva).

Le cellule endoteliali producono potenti vasodilatatori (ossido nitrico, prostaciclina) e il più potente vasocostrittore noto, l’endotelina. Di conseguenza, la disfunzione endoteliale può avere un importante effetto sulla PA. Sono in corso studi sul ruolo dell’endotelio nell’ipertensione. L’evidenza che soggetti ipertesi abbiano una ridotta attività dell’ossido nitrico è preliminare.

Ipertensione secondaria: l’ipertensione secondaria si associa a nefropatie parenchimali (p. es., glomerulonefrite cronica o pielonefrite, rene policistico, collagenopatie che coinvolgono il rene, patologie ostruttive delle vie urinarie), feocromocitoma, sindrome di Cushing e iperaldosteronismo primario, ipertiroidismo, mixedema, coartazione dell’aorta o ancora patologie nefrovascolari (v. Ipertensione Nefrovascolare, oltre). Può anche essere associata all’abuso di alcol, all’assunzione di contraccettivi orali, farmaci simpatico-mimetici, corticosteroidi, cocaina o liquirizia.

L’ipertensione associata con nefropatie parenchimali croniche risulta dalla combinazione di un meccanismo renina-dipendente e di un meccanismo volume-dipendente. Nella maggior parte dei casi, non si può dimostrare l’aumento dell’attività reninica nel sangue periferico ed è necessario un attento controllo del bilancio dei liquidi per controllare la PA.

La diagnosi e la terapia delle cause di ipertensione secondaria vengono trattate altrove nel Manuale. Il resto di questo capitolo sarà incentrato sull’ipertensione primitiva.

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Anatomia patologica

Nelle prime fasi dell’ipertensione primitiva, non si ha alcuna alterazione anatomopatologica. Successivamente, si sviluppa una sclerosi arteriolare generalizzata; essa è particolarmente evidente a livello renale (nefrosclerosi) ed è caratterizzata da ipertrofia e ialinizzazione della media. La nefrosclerosi è patognomonica dell’ipertensione primitiva. L’ipertrofia, e infine la dilatazione, del ventricolo sinistro si sviluppano gradualmente. L’aterosclerosi dei distretti coronarico, cerebrale, aortico, renale e periferico è più frequente e più grave negli ipertesi, perché l’ipertensione accelera l’aterogenesi. L’ipertensione costituisce un fattore di rischio più importante per l’ictus piuttosto che per la cardiopatia aterosclerotica. I microaneurismi di Charcot-Bouchard, frequenti nelle arterie perforanti (soprattutto dei gangli della base) dei soggetti ipertesi, possono essere all’origine di emorragie intracerebrali.

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Emodinamica

Non tutti i pazienti con ipertensione primitiva hanno una GC normale e RPT aumentate. Nella fase precoce, labile, dell’ipertensione primaria, la GC è aumentata e le RPT sono inappropriatamente normali per i valori di GC. Successivamente, le RPT aumentano e la GC torna a valori normali, probabilmente per l’intervento di meccanismi di autoregolazione. I pazienti con pressione diastolica persistentemente elevata hanno spesso una GC ridotta. Il ruolo delle grosse vene nella fisiopatologia dell’ipertensione primaria è stato ignorato, ma nelle fasi precoci della malattia la venocostrizione può contribuire all’aumento della GC.

Il volume plasmatico tende a diminuire con l’aumento della PA, sebbene alcuni pazienti abbiano volumi plasmatici aumentati. Le variazioni delle condizioni emodinamiche, del volume plasmatico e dell’ARP dimostrano che l’ipertensione primaria è più di una singola entità nosologica o che diversi meccanismi sono coinvolti in diversi stadi della malattia.

Il flusso ematico renale si riduce gradualmente a mano a mano che la PA diastolica aumenta e compare sclerosi arteriolare. La velocità di filtrazione glomerulare rimane normale fino a stadi avanzati della malattia e quindi la frazione di filtrazione è aumentata. Il flusso coronarico, cerebrale e muscolare permangono inalterati a meno che non siano presenti gravi alterazioni aterosclerotiche concomitanti in questi distretti vascolari.

In assenza di scompenso cardiaco, la GC è normale o aumentata e le resistenze periferiche sono di solito elevate nell’ipertensione dovuta a feocromocitoma, iperaldosteronismo primario, patologia nefrovascolare e nefropatia parenchimale. Il volume plasmatico tende a essere elevato nell’ipertensione dovuta a iperaldosteronismo primario o a nefropatia parenchimale e può essere inferiore alla norma nel feocromocitoma.

L’ipertensione sistolica (con pressione diastolica normale) non costituisce un’entità nosologica separata. Spesso è dovuta all’aumento della GC o della gittata sistolica (p. es., fase labile dell’ipertensione primitiva, tireotossicosi, fistola arterovenosa, insufficienza aortica); negli anziani con GC normale o bassa, è di solito espressione della perdita di elasticità dell’aorta e dei suoi rami maggiori (ipertensione arteriosclerotica).

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Sintomi e segni

L’ipertensione primitiva è asintomatica finché non si sviluppano complicanze a livello degli organi bersaglio (p. es., insufficienza ventricolare sinistra, cardiopatia aterosclerotica, insufficienza cerebrovascolare con o senza ictus, insufficienza renale). Tuttavia, i sintomi dell’encefalopatia ipertensiva dovuta a ipertensione grave e l’edema cerebrale sono descritti più avanti. L’ipertensione non complicata non provoca vertigini, flush al volto, cefalea, affaticabilità o epistassi.

La presenza di un quarto tono all’auscultazione e di un’onda P ampia e bifida all’ECG sono tra i segni più precoci di cardiopatia ipertensiva. Successivamente può aversi l’evidenza ecocardiografica di ipertrofia ventricolare sinistra. La rx del torace è spesso normale fino alla fase dilatativa della cardiopatia ipertensiva. La dissezione aortica o il sanguinamento di un aneurisma aortico possono costituire il primo segno di ipertensione o possono complicare l’ipertensione non trattata. La poliuria, la nicturia, la ridotta capacità di concentrazione delle urine da parte del rene, la proteinuria, la microematuria, la cilindruria e l’iperazotemia sono manifestazioni tardive della nefrosclerosi arteriolare.

Modificazioni patologiche della retina comprendono essudati ed emorragie retiniche, edema della papilla e accidenti vascolari. In base alle alterazioni retiniche, Keith, Wagener e Barker hanno classificato i pazienti ipertesi in gruppi, con importanti implicazioni prognostiche: gruppo 1, solo costrizione delle arteriole retiniche; gruppo 2, costrizione e sclerosi delle arteriole retiniche; gruppo 3, emorragie ed essudati in aggiunta alle alterazioni vasali; gruppo 4 (ipertensione maligna), papilledema.

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Diagnosi

La diagnosi di ipertensione primaria va posta solo dopo ripetuti rilievi di valori di PA sistolica e/o diastolica più alti del normale e dopo aver escluso cause secondarie.

Si devono eseguire almeno due determinazioni della PA in tre giornate diverse prima di etichettare un paziente come iperteso (v. Tab. 199-2). Un numero superiore di determinazioni della PA rispetto a questo limite minimo è necessario per quei pazienti che si trovano al limite inferiore dei valori considerati diagnostici di ipertensione e soprattutto per i pazienti con PA labile. I valori normali di PA sono molto più bassi per i lattanti e per i bambini (v. Screening nel Cap. 256). Valori sporadicamente più elevati in soggetti che siano stati a riposo per > 5 min sono indizio di una particolare labilità della PA che può precedere la comparsa di un’ipertensione stabile. Per esempio, l’ipertensione da "studio medico" o da"camice bianco" si riferisce a una pressione che è notevolmente aumentata nello studio medico, ma è normale se misurata a casa o mediante monitoraggio ambulatoriale della PA.

Una valutazione di base o di minima per i pazienti ipertesi comprende l’anamnesi e l’esame obiettivo, l’emocromo completo, l’analisi delle urine, le analisi del sangue (creatininemia; K; Na; glicemia; colesterolo totale, LDL e HDL) e l’ECG. Quanto più grave è l’ipertensione e quanto più giovane è il paziente, tanto più completa deve essere la valutazione. Non sono necessari di routine la scintigrafia renale, la rx del torace, i test di screening per il feocromocitoma e la determinazione del profilo sodio-reninico. L’attività reninica plasmatica periferica non aiuta nella diagnosi o nella scelta dei farmaci, ma può essere un fattore di rischio indipendente per malattia coronarica (ma non per ictus o per mortalità cardiovascolare totale).

Il feocromocitoma (v. anche Cap. 9) secerne catecolamine, che, oltre ad aumentare la PA, causano di solito dei sintomi (varia combinazione di cefalea, palpitazioni, tachicardia, eccessiva sudorazione, tremore e pallore) che devono suggerire al medico la possibile presenza di tale malattia. Le catecolamine (p. es., adrenalina e noradrenalina) vengono metabolizzate nell’organismo a un prodotto comune, l’acido 3-metossi-4-idrossi-mandelico, spesso chiamato acido vanililmandelico (VMA). La diagnosi si basa sulla dimostrazione di aumentate concentrazioni urinarie e plasmatiche di catecolamine o di un’aumentata concentrazione urinaria di metanefrine e VMA.

L’ipopotassiemia non legata all’assunzione di diuretici deve far pensare all’iperaldosteronismo primario. Nelle fasi precoci dell’ipertensione, la proteinuria, la cilindruria o la microematuria, con o senza ritenzione di azoto, depongono fortemente a favore di una nefropatia primitiva alla base dell’ipertensione stessa. L’asfigmia o la grave iposfigmia delle arterie femorali in un paziente iperteso < 30 anni di età costituisce un elemento diagnostico presuntivo di coartazione aortica. Devono essere escluse la sindrome di Cushing, le collagenopatie, la tossiemia gravidica, la porfiria acuta, l’ipertiroidismo, il mixedema, l’acromegalia, alcune malattie del SNC e l’iperaldosteronismo primario. Queste patologie vengono descritte altrove nel Manuale.

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Prognosi

Un paziente iperteso non trattato ha un elevato rischio di andare incontro (anche in giovane età) a invalidità fisica o exitus per insufficienza ventricolare sinistra, IMA, emorragia o infarto cerebrale, insufficienza renale. L’ipertensione è inoltre il più importante fattore di rischio per ictus. È uno dei tre fattori di rischio (insieme con il fumo di sigaretta e l’ipercolesterolemia) che predispongono all’aterosclerosi coronarica. Quanto più elevati sono i valori pressori e più gravi le alterazioni retiniche, tanto peggiore è la prognosi. Meno del 5% dei soggetti appartenenti al gruppo 4, vale a dire con ipertensione maligna caratterizzata da edema della papilla, e < 10% dei pazienti appartenenti al gruppo 3 sopravvive a 1 anno senza terapia. Un efficace controllo dei valori pressori mediante terapia medica è in grado di prevenire o di arrestare la maggior parte delle complicanze e di prolungare la sopravvivenza dei pazienti con ISI o ipertensione diastolica. Tra i pazienti ipertesi sottoposti a trattamento, la più comune causa di morte è costituita dalla coronaropatia. La PA sistolica è un predittore di eventi cardiovascolari fatali e non più importante rispetto alla PA diastolica. In un follow-up di uomini selezionati per lo studio "Multiple Risk Factor Intervention Trial", la mortalità globale era correlata ai livelli sistolici della PA, indipendentemente dai valori diastolici.

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Terapia

L’ipertensione primaria non è curabile, ma la terapia può modificarne il decorso. Si stima che solo il 24% dei pazienti ipertesi negli USA abbia valori pressori in terapia < 140/90 mm Hg e che il 30% non sappia di essere iperteso.

Modificazioni dello stile di vita: il riposo, ferie prolungate, una moderata riduzione di peso e un ridotto apporto di Na con la dieta non sono efficaci quanto la terapia antiipertensiva farmacologica. I pazienti con ipertensione non complicata non devono ridurre il proprio livello di attività finché è possibile tenere sotto controllo i valori pressori. Restrizioni dietetiche possono essere d’aiuto nel controllo del diabete mellito, dell’obesità e delle dislipidemie. Nel I stadio dell’ipertensione, la riduzione del peso corporeo a valori ideali, la restrizione dell’apporto dietetico di Na a < 2 g/die e la limitazione del consumo di alcol a < 25 cc/die possono rendere non necessaria la terapia farmacologica. Una blanda attività fisica va di solito incoraggiata. Il fumo di sigaretta deve essere assolutamente scoraggiato.

Terapia farmacologica antiipertensiva: la maggior parte delle autorità in materia è d’accordo sul fatto che i pazienti con PA sistolica fra 140 e 159 mm Hg e/o PA diastolica fra 90 e 94 mm Hg devono essere sottoposti a terapia farmacologica, se le modificazioni dello stile di vita non sono sufficienti a normalizzare i valori pressori. Il beneficio della terapia farmacologica nei pazienti con ipertensione arteriosa al I stadio è inequivocabile. Non ci sono dati circa l’efficacia della terapia antiipertensiva per l’ipertensione borderline. Quando c’è già un danno d’organo o sono presenti altri fattori di rischio, o quando la PA sistolica è  160 mm Hg e/o la PA diastolica è  100 mm Hg, non bisogna ritardare l’inizio della terapia farmacologica in attesa degli incerti risultati derivanti dalle modificazioni dello stile di vita. Lo scompenso cardiaco, l’aterosclerosi coronarica sintomatica, la patologia cerebrovascolare e l’insufficienza renale richiedono un’urgente e razionale terapia antiipertensiva.

Il "Systolic Hypertension in the Elderly Trial" ha dimostrato un beneficio significativo della terapia antiipertensiva. In pazienti con età  60 anni con PA sistolica  160 e PA diastolica < 90 mm Hg, il clortalidone (associato all’atenololo, se necessario) riduceva l’incidenza di ictus (del 36%) e di altri eventi cardiovascolari maggiori. Il beneficio è stato riscontrato sia nei pazienti molto anziani che in quelli relativamente più giovani. Lo scopo era abbassare la PA sistolica a < 160 mm Hg o di almeno 20 mm Hg per i pazienti i cui valori di PA sistolica pre-trattamento erano fra 160 e 179 mm Hg.

Tranne che nei pazienti > 65 anni d’età, lo scopo della terapia deve essere quello di ridurre la PA a < 135/80 mm Hg, o a valori quanto più possibile vicini a questo, che possano essere tollerati dal paziente. Studi retrospettivi indicano che la mortalità coronarica può aumentare se la PA diastolica viene ridotta a < 85 mm Hg, specialmente per i pazienti con evidenza clinica di una preesistente cardiopatia aterosclerotica (cosiddetta curva a J). Tuttavia, altre osservazioni non hanno confermato questo dato e la maggior parte degli studi non ha mostrato una curva a J per la PA sistolica, anche quando si osservava una curva a J per la PA diastolica. È in genere vantaggioso che il paziente esegua delle misurazioni della PA a casa propria, a condizione che egli stesso o un familiare siano accuratamente istruiti e che lo sfigmomanometro sia calibrato con precisione a intervalli regolari.

La terapia farmacologica va iniziata con un diuretico o un b-bloccante, a meno che questi farmaci non siano controindicati o sia indicata un’altra classe farmacologica. Se questi farmaci sono inefficaci, classi alternative utilizzabili per la terapia iniziale comprendono i calcioantagonisti, gli ACE inibitori, gli antagonisti recettoriali dell’angiotensina II, gli a1-bloccanti adrenergici e gli a-b-bloccanti (v. Tab. 199-3).

Tuttavia, per nessuno di questi farmaci, eccetto che per la nitrendipina (un calcioantagonista diidropiridinico), è stata dimostrata una riduzione della morbilità e della mortalità cardiovascolare in trial prospettici randomizzati; al contrario, i diuretici e i b-bloccanti come terapia iniziale hanno mostrato effetti positivi sulla morbilità e mortalità cardiovascolare e cerebrovascolare. La nitrendipina riduce in maniera significativa gli ictus fatali e non, ma non gli eventi coronarici in pazienti anziani con ipertensione sistolica isolata.

La scelta del farmaco iniziale deve essere guidata dall’età e dalla razza del paziente e da patologie concomitanti o da condizioni che possono rappresentare controindicazioni per alcuni farmaci (p. es., asma e b-bloccanti) o indicazioni per altri farmaci (p. es., angina pectoris e b-bloccanti o calcioantagonisti). Nel "Veterans Administration Trial", in cui veniva valutata la monoterapia per l’ipertensione arteriosa negli uomini, i pazienti di razza nera rispondevano meglio al calcioantagonista (diltiazem). L’idroclorotiazide era più efficace negli uomini di razza bianca o nera d’età superiore a 60 anni piuttosto che nei pazienti più giovani. Il b-bloccante atenololo era più efficace nei pazienti di razza bianca piuttosto che in quelli di razza nera, indipendentemente dall’età. La razza e l’età costituiscono solo una guida per la terapia, ma esistono molte eccezioni.

Se il farmaco iniziale è inefficace o causa effetti collaterali non tollerabili, si può sostituirlo con un altro farmaco (monoterapia sequenziale). Alternativamente, se il primo farmaco è solo parzialmente efficace ma ben tollerato, si può aumentarne la dose o si può aggiungere un secondo farmaco, che deve appartenere a una classe diversa (terapia a gradini). I farmaci che inibiscono il sistema nervoso simpatico a livello centrale non sono raccomandati come terapia iniziale a causa dei loro effetti collaterali. Tuttavia, essi sono efficaci e possono essere utilizzati a piccole dosi in associazione ad altri farmaci. Un vasodilatatore diretto (idralazina o minoxidil) può essere utilizzato in associazione con un diuretico per prevenire la ritenzione idrica o con un b-bloccante per prevenire la tachicardia riflessa.

Preferibilmente, la terapia va iniziata con un solo farmaco, a meno che l’ipertensione non sia grave. Tuttavia, associazioni di un diuretico con un b-bloccante o con un ACE-inibitore sono disponibili in compresse singole a dosi subterapeutiche di ciascun principio attivo; i due farmaci insieme sono efficaci nel controllo dei valori pressori con effetti collaterali minimi. Due di queste combinazioni sono disponibili negli USA per la terapia iniziale dello stadio 1 o 2 dell’ipertensione (v. Tab. 199-4). Tre o quattro farmaci in associazione possono essere necessari per l’ipertensione grave o resistente.

Tutti i derivati tiazidici sono ugualmente efficaci a dosi equivalenti (v. Tab. 199-5). Il metolazone, l’indapamide e i diuretici dell’ansa furosemide, bumetanide, acido etacrinico e torsemide non sono superiori ai tiazidici, ma vengono preferiti nei pazienti con insufficienza renale cronica.

L’azione antiipertensiva dei diuretici sembra essere dovuta a una modesta riduzione del volume plasmatico e a una diminuzione della reattività vascolare, forse mediata da spostamenti del Na dal compartimento intracellulare a quello extracellulare.

Supplementi di K, o diuretici risparmiatori di potassio, vanno associati ai diuretici kaliuretici nei pazienti che sono in terapia digitalica, che hanno una cardiopatia nota, un ECG anormale, extrasistoli o aritmie o che sviluppano extrasistoli o aritmie dopo l’instaurazione della terapia diuretica. I diuretici che agiscono sul tubulo distale e risparmiano potassio (spironolattone, triamterene e amiloride) non causano ipokaliemia, iperuricemia o iperglicemia, ma non sono efficaci quanto i tiazidici nel controllare l’ipertensione. Anziché i supplementi di K, per trattare o prevenire l’ipokaliemia, si possono associare alla terapia tiazidica: spironolattone 25-100 mg/die, triamterene 50-150 mg/die o amiloride 5-10 mg /die.

Uno svantaggio dei diuretici è la disfunzione sessuale, che si verifica più comunemente che con alcuni degli altri farmaci proposti per la terapia iniziale. Gli effetti collaterali metabolici dei diuretici (ipokaliemia, ipomagnesiemia, iperuricemia, iperglicemia, ipercalcemia, iperlipidemia) sono dose-dipendenti e, se affrontati in modo appropriato, in genere non impediscono l’uso del diuretico. Lo spironolattone può causare ginecomastia; per questo, quando si sceglie un risparmiatore di K negli uomini, vengono preferiti l’amiloride o il triamterene.

Non comunemente, i diuretici precipitano la manifestazione clinica di un diabete di tipo II o aggravano un diabete di tipo II preesistente in pazienti suscettibili. La maggior parte dei diabetici può tollerare un diuretico tiazidico a basse dosi con effetto scarso o nullo sul controllo del diabete, sebbene si possa aggravare l’iperinsulinemia. L’esercizio e la perdita di peso migliorano, ma non eliminano, questi effetti collaterali.

I tiazidici e gli altri diuretici possono causare un aumento del colesterolo sierico (soprattutto LDL) e dei trigliceridi, sebbene la maggior parte degli studi a lungo termine non sia riuscita a dimostrare effetti avversi a > 1 anno. Inoltre, questo aumento dei lipidi circolanti sembra verificarsi solo nei pazienti suscettibili, si fa evidente nel giro di 4 settimane di terapia e può essere migliorato con una dieta a basso contenuto di grassi. Un’elevata concentrazione sierica di colesterolo o di trigliceridi non è una controindicazione assoluta all’uso dei diuretici nel trattamento dell’ipertensione, poiché è più probabile che l’effetto iperlipemizzante si verifichi in pazienti con normali concentrazioni di lipidi circolanti piuttosto che in pazienti con iperlipidemia.

Una predisposizione ereditaria spiega probabilmente i pochi casi in cui l’iperuricemia indotta dai diuretici ha causato gotta clinicamente evidente. Nel "programma di individuazione e follow-up dell’ipertensione" condotto in America, sono stati registrati solo 15 casi di gotta in 5 anni su 3693 partecipanti a rischio. L’iperuricemia indotta dai diuretici, in assenza di gotta, non è un’indicazione alla terapia antiuricemica, né una controindicazione al proseguimento della terapia diuretica. I diuretici sono meno costosi degli altri farmaci utilizzati come terapia iniziale della ipertensione.

Tutti i b-bloccanti (v. Tab. 199-6) si equivalgono in termini di efficacia antiipertensiva. È preferibile utilizzare un b-bloccante cardioselettivo (acebutololo, atenololo, betaxololo, bisoprololo, metoprololo) se il paziente è anche affetto da diabete mellito, arteriopatia periferica cronica occlusiva o COPD. Tuttavia, la cardioselettività è solo relativa e diminuisce con l’incremento della dose del b-bloccante. Anche i b-bloccanti cardioselettivi sono controindicati in presenza di asma grave o BPCO con prevalente componente broncospastica. L’uso di un b-bloccante cardioselettivo in assenza di una di queste indicazioni non offre alcun vantaggio rispetto a un b-bloccante non selettivo.

I b-bloccanti con attività simpatomimetica intrinseca (ISA, p. es., acebutololo, carteololo, penbutololo, pindololo) non hanno effetti avversi sui lipidi sierici; rispetto ai b-bloccanti privi di ISA, è inoltre meno probabile che essi producano una bradicardia grave. Tuttavia, la bradicardia sinusale asintomatica, anche con frequenze intorno ai 40 min, non è solitamente pericolosa.

I b-bloccanti senza ISA e senza proprietà a-bloccanti hanno un effetto cardioprotettivo nei pazienti con IMA; tali farmaci sono perciò indicati per questi pazienti.

Gli svantaggi dei b-bloccanti comprendono un’elevata incidenza di effetti collaterali a livello del SNC (disturbi del sonno, affaticamento, letargia) e di controindicazioni (blocchi cardiaci superiori al 1o grado, asma, malattia del nodo del seno, insufficienza cardiaca). Similmente ai diuretici, i b-bloccanti possono causare disfunzione sessuale nell’uomo ed effetti collaterali di natura metabolica, quali una ridotta tolleranza glucidica, una riduzione del colesterolo HDL e un aumento del colesterolo totale e dei trigliceridi.

Similmente ai b-bloccanti con ISA, l’a-b-bloccante labetalolo non riduce la frequenza a riposo nella stessa misura in cui la riducono i b-bloccanti senza ISA e non sembra avere effetti collaterali sui lipidi sierici.

I calcioantagonisti (v. Tab. 199-7) sono potenti vasodilatatori periferici e riducono la PA riducendo le resistenze periferiche. Il verapamil, una fenilalchilamina, e il diltiazem, un derivato delle benzotiazepine, rallentano la frequenza cardiaca, rallentano la conduzione atrioventricolare e hanno un effetto inotropo negativo simile a quello dei b-bloccanti. Di conseguenza, non devono essere prescritti a pazienti con blocchi cardiaci superiori al primo grado o insufficienza ventricolare sinistra. In generale, i b-bloccanti e il verapamil o il diltiazem non devono essere prescritti alle dosi usuali in pazienti con disfunzione ventricolare sinistra.

I derivati delle diidropiridine (amlodipina, felodipina, isradipina, nicardipina, nifedipina, nisoldipina) hanno un effetto inotropo negativo minore rispetto ai calcioantagonisti non diidropiridinici, ma possono talvolta causare tachicardia riflessa. Questi farmaci sono vasodilatatori periferici più potenti rispetto ai calcioantagonisti non diidropiridinici e dovrebbero quindi essere più efficaci. Tuttavia, nella terapia antiipertensiva a lungo termine, non sembrano essere più potenti dei calcioantagonisti non diidropiridinici.

La nifedipina a breve durata d’azione è stata associata, in studi caso-controllo o di coorte non randomizzati, con un’aumentata incidenza di IMA rispetto ad altre classi di farmaci e di conseguenza non va usata per trattare l’ipertensione (per la quale non è indicata). Anche il diltiazem a breve durata d’azione non è indicato nella terapia dell’ipertensione. Vanno preferiti i calcioantagonisti a lunga durata d’azione.

In pazienti ipertesi con angina pectoris che hanno anche una malattia broncospastica o la malattia di Raynaud, va preferito un calcioantagonista rispetto a un b-bloccante.

I calcioantagonisti non hanno effetti collaterali di natura metabolica, ma possono essere più costosi degli ACE-inibitori.

Gli ACE-inibitori (v. Tab. 199-8) sono vasodilatatori che riducono la PA perché interferiscono con la formazione dell’angiotensina II a partire dall’angiotensina I e perché inibiscono la degradazione delle bradichinine, diminuendo così le resistenze vascolari periferiche senza provocare tachicardia riflessa. Riducono la PA in molti pazienti ipertesi, quale che sia l’attività reninica plasmatica.

Uno dei vantaggi degli ACE-inibitori nella terapia dell’ipertensione è il basso profilo degli effetti collaterali. Una tosse secca irritativa è probabilmente il loro principale effetto collaterale. Gli ACE-inibitori non hanno effetti negativi sui lipidi sierici, sulla glicemia o sull’acido urico. Tendono ad aumentare il K sierico, specialmente in pazienti con insufficienza renale cronica o in pazienti che assumono anche diuretici risparmiatori di K, supplementi di K o FANS. È altamente improbabile che gli ACE-inibitori causino disfunzione sessuale nell’uomo. L’angioedema è un raro effetto collaterale degli ACE-inibitori e può mettere a rischio la sopravvivenza se coinvolge la regione orofaringea.

Gli ACE-inibitori riducono la proteinuria nei pazienti con nefropatia diabetica e possono ritardare la glomerulosclerosi dilatando selettivamente le arteriole glomerulari efferenti (postglomerulari), con conseguente riduzione della pressione capillare glomerulare senza compromissione del flusso ematico. Essi ritardano la perdita della funzione renale nei pazienti con nefropatia dovuta al diabete di tipo I. Se gli ACE-inibitori vengono prescritti a pazienti con nefropatia cronica, soprattutto quando è presente iperazotemia, la creatininemia e i livelli di K devono essere controllati frequentemente. Gli ACE-inibitori possono causare insufficienza renale acuta in pazienti portatori di stenosi bilaterale dell’arteria renale o di stenosi grave dell’arteria di un rene unico, presumibilmente perché, nelle suddette condizioni, la velocità di filtrazione glomerulare è mantenuta dalla costrizione dell’arteriola efferente mediata dall’angiotensina II, che viene eliminata dall’inibizione dell’ACE. Per le stesse ragioni, essi possono provocare insufficienza renale acuta in pazienti ipovolemici e in pazienti con insufficienza cardiaca grave. Ciononostante, gli ACE-inibitori riducono la mortalità e il tasso di reospedalizzazione nei pazienti con disfunzione ventricolare sinistra e frazione d’eiezione < 40%.

I diuretici potenziano l’attività antiipertensiva di tutte le altre classi di farmaci antiipertensivi, ma mostrano un effetto sinergico particolarmente importante quando associati agli ACE-inibitori.

Uno svantaggio della terapia con ACE-inibitori è rappresentato dall’ elevato costo.

Gli antagonisti recettoriali dell’angiotensina II (v. Tab. 199-8) bloccano i recettori per l’angiotensina II e di conseguenza interferiscono con il sistema renina-angiotensina, probabilmente in maniera più incisiva rispetto agli ACE-inibitori. Non contrastano la degradazione della bradichinina e questo forse spiega perché non causano tosse secca. Nella misura in cui la bradichinina può contribuire all’effetto antiipertensivo degli ACE-inibitori, gli antagonisti recettoriali dell’angiotensina II possono essere meno efficaci nel ridurre la PA. Tuttavia, nella misura in cui l’ACE tissutale non è contrastato dagli ACE-inibitori, gli antagonisti recettoriali dell’angiotensina II possono risultare più efficaci come antiipertensivi. Studi clinici hanno dimostrato che queste due classi di farmaci hanno un’efficacia equivalente come antiipertensivi. Sembra che gli antagonisti recettoriali dell’angiotensina II siano privi di effetti collaterali e sono stati ritenuti responsabili di meno casi di angioedema rispetto agli ACE-inibitori, ma tale effetto collaterale è molto raro con entrambe queste classi di farmaci. Presumibilmente, gli antagonisti recettoriali dell’angiotensina II hanno gli stessi effetti positivi degli ACE-inibitori nei pazienti con insufficienza ventricolare sinistra e nei diabetici di tipo I con nefropatia, ma non sono ancora stati pubblicati trial clinici controllati definitivi. Le precauzioni che vanno adottate nell’uso degli ACE-inibitori nei pazienti con ipertensione nefrovascolare, ipovolemia e scompenso cardiaco grave sono valide anche per gli antagonisti recettoriali dell’angiotensina II.

Gli inibitori adrenergici (v. Tab. 199-9) comprendono gli a2-agonisti, che hanno un’azione centrale e producono, con maggiore probabilità rispetto ad altri farmaci, sonnolenza, sopore e a volte depressione. La metildopa, la clonidina, il guanabenz e la guanfacina riducono l’attività simpatica stimolando i recettori a2-adrenergici presinaptici a livello del tronco cerebrale. La clonidina è disponibile per somministrazione transdermica in sistemi adesivi da applicarsi una volta a settimana, da 2,5, 5 o 7,5 mg, che liberano rispettivamente 0,1, 0,2 o 0,3 mg di clonidina/die. Questa via di somministrazione sembra essere altrettanto efficace della via orale e presenta meno effetti collaterali. Tuttavia, circa il 20% dei pazienti sviluppa reazioni cutanee sul sito di applicazione, al punto da rendere necessaria la sospensione del farmaco.

La prazosina, la terazosina e la doxazosina sono bloccanti a1-adrenergici postsinaptici periferici che agiscono sulle vene e sulle arteriole. Tutti questi farmaci alleviano i sintomi dell’iperplasia prostatica benigna e sono l’unico gruppo di farmaci antiipertensivi che ha un modesto effetto sulla riduzione del colesterolo sierico, specialmente la frazione legata alle LDL.

La guanetidina e il guanadrel bloccano la trasmissione simpatica alla giunzione sinaptica e, similmente alla reserpina, riducono le riserve tissutali di noradrenalina. La guanetidina è particolarmente potente, ma è difficile da dosare in maniera precisa, cosicché il suo uso si è molto ridotto con l’avvento di nuovi farmaci. Il guanadrel è un farmaco ad azione più breve della guanetidina e produce meno effetti collaterali. La reserpina provoca deplezione di noradrenalina e di serotonina a livello cerebrale e provoca anche deplezione di noradrenalina a livello delle terminazioni nervose simpatiche periferiche. Eccetto che per i bloccanti dei recettori a1, questi inibitori adrenergici non sono consigliati come terapia iniziale di routine, poiché possono causare una ritenzione idrica non evidente che conduce a pseudotolleranza; inoltre, essi hanno un peggior profilo di effetti collaterali rispetto ai farmaci raccomandati come terapia iniziale. Tuttavia, gli a2-agonisti e la reserpina sono eccellenti farmaci di seconda fase, specialmente se associati a un diuretico.

Il meccanismo d’azione dei vasodilatatori diretti (indipendente dal sistema nervoso vegetativo) è diverso da quello dei calcioantagonisti e degli ACE-inibitori (v. Tab. 199-11): il minoxidil è più potente dell’idralazina ma ha più effetti collaterali, compresi ritenzione idrica e sodica e irsutismo, scarsamente tollerato dalle donne; deve essere riservato all’ipertensione grave e resistente. L’idralazina è stata a lungo utilizzata (e lo è ancora) come farmaco di terza fase, poiché il suo effetto antiipertensivo è additivo rispetto a quello di altri farmaci vasodilatatori. La sindrome lupoide si ha raramente se il dosaggio è < 300 mg/die.

Prostaglandine vasodilatatrici e composti che aumentano la produzione endoteliale di ossido nitrico, riducono il rilascio di endotelina da parte dell’endotelio o bloccano i recettori per l’endotelina possono offrire nuove possibilità nella terapia dell’ipertensione.

Terapia farmacologica delle emergenze ipertensive: le crisi ipertensive possono essere classificate come vere emergenze che richiedono l’immediata riduzione della PA (p. es., encefalopatia ipertensiva, insufficienza ventricolare sinistra acuta con edema polmonare, eclampsia, dissezione aortica acuta, ipertensione grave durante una fase d’instabilità d’angina o in corso di IMA), di solito con somministrazione di farmaci per via parenterale (v. Tab. 199-10), e urgenze ipertensive, per le quali il medico è più preoccupato del paziente. Le urgenze ipertensive sono frequentemente trattate in maniera eccessiva.

Una rapida riduzione dei valori pressori mediante farmaci somministrati per via parenterale è indicata nei pazienti che presentano encefalopatia ipertensiva, insufficienza ventricolare sinistra acuta o altre reali condizioni d’urgenza. A questo scopo, si utilizzano in genere il diazossido, il nitroprussiato di sodio, la nitroglicerina, la nicardipina o il labetalolo. Poiché il diazossido è un derivato tiazidico non diuretico che può causare ritenzione idrica, va abitualmente associato con furosemide a dosi di 40-80 mg EV. Il diazossido viene somministrato mediante infusione EV rapida alla dose di 50-100 mg (1-1,5 mg/kg,  100 mg/dose) q 5-10 min finché la PA non raggiunge un livello ottimale. Gli effetti collaterali comprendono nausea, vomito, iperglicemia, iperuricemia, tachicardia e, solo occasionalmente, ipotensione (generalmente senza shock).

Il nitroprussiato di sodio viene somministrato mediante infusione EV continua in soluzione glucosata al 5%, alla dose di 0,25-10 mg/kg/ min (per  10 min, alla dose più alta possibile che però non comporti il rischio di tossicità da cianati) e può ridurre i valori di PA rapidamente nella crisi ipertensiva, ma il suo effetto di brevissima durata e la sua potenza richiedono un monitoraggio quasi continuo della PA in terapia intensiva. Contrariamente al diazossido, esso produce dilatazione venosa e arteriolare e quindi riduce il precarico e il postcarico; per questo è particolarmente utile per il trattamento dei pazienti ipertesi con scompenso cardiaco congestizio. Gli effetti collaterali comprendono nausea, vomito, agitazione, scosse muscolari e pelle d’oca, se la pressione viene abbassata troppo rapidamente. La terapia prolungata può provocare psicosi acute per intossicazione da tiocianato, soprattutto in pazienti con insufficienza renale. Il farmaco va sospeso se la concentrazione ematica del tiocianato supera i 12 mg/dl (206 mmol/dl).

La nitroglicerina, similmente al nitroprussiato di sodio, rilascia i vasi di resistenza e le grosse vene di capacitanza. Rispetto al nitroprussiato di sodio, ha un effetto maggiore sulle vene che sulle arteriole. L’infusione EV di nitroglicerina è stata utilizzata nel trattamento dell’ipertensione durante e dopo interventi di bypass aorto-coronarico, in caso di scompenso cardiaco, di IMA, angina instabile ed edema polmonare acuto. Studi emodinamici indicano che la nitroglicerina EV è preferibile al nitroprussiato di sodio nel trattamento dell’ipertensione associata a grave insufficienza coronarica, in quanto la prima aumenta, mentre il secondo diminuisce il flusso coronarico alle aree ischemiche, forse a causa di un meccanismo di furto. Il più frequente effetto collaterale è la cefalea, che si osserva in circa il 2% dei pazienti; sono stati inoltri descritti: tachicardia, nausea, vomito, apprensione, agitazione, contratture muscolari e palpitazioni.

Il labetalolo, alla dose di 20-40 mg EV q 10 min o in infusione continua, è efficace quanto il nitroprussiato di sodio, il diazossido o la nitroglicerina nel trattamento della crisi ipertensiva. A queste dosi non sono stati descritti episodi di grave ipotensione; anche gli altri effetti collaterali sono risultati di scarso rilievo. Per la sua attività b-bloccante, il labetalolo non deve essere usato per le emergenze ipertensive in pazienti con insufficienza acuta del ventricolo sinistro o in pazienti asmatici.

Nonostante la nifedipina a breve durata d’azione somministrata PO riduca la PA rapidamente, essa è stata associata con eventi acuti cardiovascolari e cerebrovascolari (talvolta fatali) e non è raccomandata nella terapia delle emergenze e delle urgenze ipertensive. Non è indicata nella terapia dell’ipertensione.

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