16. MALATTIE DELL’APPARATO CARDIOVASCOLARE

202. CORONAROPATIA

INFARTO MIOCARDICO

Necrosi ischemica miocardica derivante di solito dalla brusca riduzione del flusso coronarico in un determinato distretto miocardico.

Sommario:

Eziologia e fisiopatologia
Sintomi e segni
Complicanze
Diagnosi clinica e di laboratorio
Prognosi
Terapia
Trattamento delle complicanze
Terapia dopo la dimissione dall’ospedale


Eziologia e fisiopatologia

In > 90% dei pazienti con IMA, un trombo formatosi acutamente, spesso associato alla rottura di una placca, occlude l’arteria (che era in precedenza parzialmente ostruita da una placca aterosclerotica) che fornisce sangue all’area danneggiata. Un’alterata funzione piastrinica indotta dalle modificazioni dell’endotelio a livello della placca aterosclerotica contribuisce presumibilmente alla genesi del trombo. Una trombolisi spontanea si verifica in circa 2/3 dei pazienti, cosicché, a distanza di 24 h, l’occlusione trombotica si ritrova solo nel 30% circa dei casi.

L’IMA è raramente causato da un’embolia arteriosa (p. es., nella stenosi aortica o mitralica, nell’endocardite infettiva e nell’endocardite marantica). È possibile avere un IMA in pazienti con spasmo coronarico e arterie coronarie per il resto normali. La cocaina causa un importante spasmo coronarico e gli individui che ne fanno uso possono sviluppare angina o IMA indotti dalla cocaina. Studi autoptici e angiografici hanno mostrato che una trombosi coronarica indotta dalla cocaina può verificarsi su coronarie normali o sovrapporsi a un preesistente ateroma.

L’IMA è prevalentemente una malattia del VS, sebbene il danno possa estendersi al ventricolo destro (VD) o agli atri. L’infarto del VD è di solito la conseguenza dell’occlusione dell’arteria coronaria destra o di una circonflessa dominante ed è caratterizzato da un’elevata pressione di riempimento del VD, spesso con grave insufficienza tricuspidale e ridotta gittata cardiaca. Un certo grado di disfunzione del VD si verifica in circa la metà dei pazienti con un infarto infero-posteriore e provoca un’instabilità emodinamica nel 10-15% dei casi. Una disfunzione del VD deve essere presa in considerazione in ogni paziente con infarto infero-posteriore ed elevata pressione venosa giugulare e con ipotensione o shock.

La capacità del cuore di continuare a mantenere la funzione di pompa è direttamente proporzionale all’entità del danno miocardico. I pazienti deceduti per shock cardiogeno hanno di solito un infarto, o una combinazione di cicatrice e di nuovo infarto, che interessa  50% della massa del VS. Gli infarti anteriori tendono a essere più estesi e hanno una prognosi peggiore rispetto agli infarti infero-posteriori. Sono solitamente dovuti a occlusione dei rami coronarici di sinistra, soprattutto dell’arteria discendente anteriore, mentre gli infarti infero-posteriori riflettono l’occlusione della coronaria destra o di una circonflessa dominante.

Gli infarti transmurali interessano la parete miocardica a tutto spessore, dall’epicardio all’endocardio, e si caratterizzano solitamente per un’onda Q patologica all’ECG. Gli infarti non transmurali o subendocardici non si estendono attraverso tutta la parete ventricolare e causano soltanto anomalie del tratto ST e dell’onda T. Gli infarti subendocardici coinvolgono generalmente il terzo più interno del miocardio, dove la tensione di parete è massima e il flusso miocardico è più vulnerabile a modificazioni circolatorie. Essi possono anche seguire una prolungata ipotensione da qualunque causa. Poiché l’estensione della necrosi attraverso la parete miocardica non può essere determinata clinicamente in maniera precisa, gli infarti vengono più correttamente classificati come Q e non-Q in base all’ECG. L’ammontare del miocardio necrotico può essere stimato dall’entità e dalla durata dell’aumento della CK.

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Sintomi e segni

Circa 2/3 dei pazienti avvertono sintomi premonitori qualche giorno o settimana prima dell’evento, compresa angina instabile o in crescendo (v. sopra), dispnea o affaticabilità. Il primo sintomo di un IMA è in genere il dolore viscerale profondo, retrosternale, descritto come costrittivo od oppressivo, spesso irradiato al dorso, alla mandibola o al braccio sinistro. Il dolore ha caratteristiche analoghe a quelle dell’angina pectoris, ma di solito è più intenso, duraturo e scarsamente o solo transitoriamente alleviato dal riposo o dalla nitroglicerina. Tuttavia, il dolore può anche essere molto lieve e circa il 20% degli infarti acuti è silente o non viene riconosciuto dal paziente come un evento patologico. Le donne possono avere un fastidio toracico atipico. I pazienti anziani possono lamentare dispnea piuttosto che dolore toracico di tipo ischemico. Negli episodi gravi il paziente appare angosciato e può avvertire una sensazione di morte imminente. Possono verificarsi nausea e vomito, soprattutto nell’IM inferiore. I sintomi dovuti a insufficienza del VS, a edema polmonare, a shock o aritmie importanti possono dominare il quadro clinico.

All’esame clinico, il paziente appare in preda a un dolore intenso, è di solito inquieto e ansioso, con la cute pallida, fredda e sudata. Può manifestarsi cianosi periferica o centrale. Il polso può essere filiforme e la PA è variabile, sebbene la maggior parte dei pazienti presenti inizialmente un certo grado di ipertensione, a meno che non si stia sviluppando uno shock cardiogeno.

I toni cardiaci sono spesso un po’ attutiti; è quasi di regola la presenza di un quarto tono. Può esserci un soffio sistolico dolce apicale (espressione di disfunzione del muscolo papillare). Il rilievo di sfregamenti o soffi più marcati alla valutazione iniziale suggerisce una cardiopatia preesistente o un’altra diagnosi. La comparsa di uno sfregamento nelle primissime ore dell’IMA è piuttosto insolita e può suggerire la diagnosi di pericardite acuta piuttosto che di IMA. Sfregamenti pericardici, solitamente evanescenti, sono comuni al 2o e 3o giorno dopo un infarto di tipo Q.

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Complicanze

Un’aritmia, di qualunque genere, si verifica in > 90% dei pazienti infartuati (v. anche Cap. 205). In una fase precoce, si possono osservare bradicardia o battiti ectopici ventricolari (BEV). Le turbe della conduzione possono riflettere un danno a carico del nodo del seno, del nodo atrioventricolare o del tessuto specifico di conduzione. Le aritmie potenzialmente letali, che costituiscono la principale causa di morte nelle prime 72 h, comprendono la tachicardia di qualsiasi origine, rapida abbastanza da ridurre la gittata cardiaca e abbassare la PA, i blocchi AV di secondo grado tipo Mobitz II o di terzo grado, la tachicardia ventricolare (TV) e la fibrillazione ventricolare (FV). Il blocco cardiaco completo con QRS largo (gli impulsi atriali non riescono a raggiungere il ventricolo, la frequenza ventricolare è bassa) è raro e generalmente è indice di un infarto anteriore massivo. Il blocco atrioventricolare completo con QRS stretto indica di solito un infarto inferiore o posteriore. L’asistolia è infrequente, a parte i casi in cui compare come manifestazione terminale di insufficienza ventricolare sinistra progressiva e shock.

I disturbi della funzione del nodo del seno dipendono dall’arteria da cui ha origine il vaso che lo irrora (cioè coronaria destra o sinistra) e dalla possibilità, specialmente nei pazienti in età più avanzata, di una patologia preesistente. La bradicardia sinusale non ha in genere alcun significato, a meno che la frequenza cardiaca sia inferiore a 50 bpm. La tachicardia sinusale persistente è di solito un segno infausto, spesso espressione di insufficienza del VS e di bassa gittata cardiaca. Vanno comunque ricercate altre cause (p. es., sepsi, ipertiroidismo).

Aritmie atriali, compresi i battiti ectopici atriali (BEA), la fibrillazione e il flutter atriale (meno comune della fibrillazione) si riscontrano in circa il 10% dei pazienti con IMA e possono essere espressione di scompenso ventricolare sinistro o infarto atriale destro. La tachicardia atriale parossistica è rara e in genere si manifesta in pazienti che hanno già avuto episodi precedenti.

La fibrillazione atriale che si verifica entro le prime 24 ore è solitamente transitoria. Fattori di rischio comprendono un’età > 70 anni, lo scompenso cardiaco, un pregresso IMA, un infarto anteriore esteso, un infarto atriale, la pericardite, l’ipokaliemia, l’ipomagnesiemia, malattie respiratorie croniche e l’ipossia. La terapia trombolitica ne riduce l’incidenza. La fibrillazione atriale parossistica ricorrente è un segno prognostico negativo e aumenta il rischio di embolia sistemica.

Nel blocco atrioventricolare, modificazioni reversibili della conduzione atrioventricolare, cioè turbe della conduzione tipo Mobitz I con prolungamento dell’intervallo P-R o fenomeno di Wenckebach, si osservano con relativa frequenza, particolarmente nell’infarto infero-diaframmatico; in tal caso, infatti, sono interessati i vasi che irrorano la parete posteriore del VS, che danno rami per il nodo atrioventricolare. Questi disturbi di solito sono autolimitantesi. La corretta diagnosi ECG del tipo di blocco è importante. La progressione verso il blocco cardiaco completo è insolita; il vero blocco tipo Mobitz II, con battiti mancanti o blocco atrioventricolare con complessi QRS larghi e lenti, rappresenta solitamente una complicanza infausta dell’infarto anteriore massivo.

Le aritmie ventricolari sono comuni. BEV si verificano nella maggior parte dei pazienti con IMA, ma non richiedono terapia. La FV primaria si verifica nelle prime ore dopo un IMA. La FV tardiva può essere associata con ischemia miocardica continua o tardiva e, quando associata con instabilità emodinamica, è un segno prognostico negativo. Le aritmie ventricolari possono riflettere ipossia, squilibrio elettrolitico o iperattività simpatica.

L’insufficienza cardiaca si verifica in circa i 2/3 dei pazienti ospedalizzati per IMA. Di solito è predominante la disfunzione del VS, con dispnea, rantoli inspiratori alle basi polmonari e ipossiemia. I segni clinici dipendono dalle dimensioni dell’infarto, dall’aumento della pressione di riempimento del VS e dall’entità della riduzione della gittata cardiaca. Nell’insufficienza del VS, la PaO2 prima e dopo la somministrazione efficace di un diuretico ad azione rapida (p. es., furosemide 40 mg EV) può essere d’aiuto per fare diagnosi: una ridotta PaO2 dovuta a insufficienza del VS deve aumentare dopo la diuresi. La mortalità varia in maniera direttamente proporzionale alla gravità dell’insufficienza ventricolare sinistra (v. Tab. 202-3).

Nell’infarto del VD, i segni clinici comprendono un’elevata pressione di riempimento del VD, turgore giugulare, nessun rilievo patologico a carico dei campi polmonari e ipotensione. Un sopraslivellamento del tratto ST di 1 mm nella derivazione precordiale destra (V4R) è altamente indicativo di infarto del VD. L’infarto del VD che complica un infarto del VS è associato a un aumento della mortalità.

L’ipossiemia che accompagna comunemente un IMA è solitamente secondaria all’aumento della pressione atriale sinistra con conseguente alterazione del rapporto ventilazione/perfusione a livello polmonare, edema polmonare in fase interstiziale, collasso degli alveoli e aumento della quota fisiologica di shunt. In pazienti di età compresa fra 50 e 70 anni, i valori normali di PaO2 a riposo a letto sono di circa 82 ± 5 mm Hg.

L’ipotensione in corso di IMA può essere dovuta alla riduzione del riempimento ventricolare o alla perdita di forza contrattile secondaria a un infarto massivo. Un ridotto riempimento del VS è il più delle volte la conseguenza di una ridotto ritorno venoso, a sua volta secondario a ipovolemia, soprattutto in pazienti che ricevono una terapia diuretica intensa; tuttavia, esso può anche riflettere un infarto del VD. Per determinare la causa dell’ipotensione, talvolta è necessario misurare le pressioni intracardiache mediante catetere transcutaneo a palloncino flottante (Swan-Ganz). Se (in presenza di ipotensione sistemica) la pressione nell’atrio sinistro è bassa, va eseguito un test di carico di liquidi (NaCl 0,9% o 0,45%): si somministrano 200-400 ml di NaCl in 30 min monitorando la PA sistemica e quella atriale sinistra. Se la PA sale con un incremento solo modesto della pressione atriale, la diagnosi di ipovolemia è probabile. Alternativamente (se non si misurano le pressioni intracardiache), un aumento della PA con miglioramento del quadro clinico e assenza di congestione polmonare suggerisce un’ipovolemia.

Lo shock cardiogeno, caratterizzato da ipotensione, tachicardia, diuresi ridotta, confusione mentale, sudorazione profusa ed estremità fredde, ha una mortalità  65%. È soprattutto associato all’infarto massivo in sede anteriore e alla perdita di una quota > 50% del miocardio ventricolare sinistro funzionante.

Un’ischemia ricorrente può seguire un IMA. Il dolore toracico dell’IMA scompare generalmente in 12-24 ore. Ogni dolore toracico residuo o successivo può rappresentare una pericardite, un’embolia polmonare o altre complicanze (p. es., polmonite, disturbi gastrici o ischemia ricorrente). L’ischemia ricorrente è di solito accompagnata da modificazioni reversibili dell’onda T e del tratto ST all’ECG. La PA può essere elevata. Fino a 1/3 dei pazienti che non hanno più dolore toracico possono avere ischemia silente (modificazioni ECG senza dolore). L’evidenza di ischemia continua post-IMA suggerisce la presenza di miocardio a rischio.

Un’insufficienza funzionale del muscolo papillare si verifica in circa il 35% dei pazienti. In alcuni si ha un’insufficienza mitralica permanente, causata da una lesione cicatriziale del muscolo papillare o della parete libera. L’auscultazione frequente nel corso delle prime ore dell’infarto permette di apprezzare spesso un transitorio soffio telesistolico apicale, che si ritiene legato all’ischemia di un muscolo papillare che provoca una mancata coaptazione completa dei lembi valvolari mitralici.

Esistono 3 forme di rottura del miocardio: quella del muscolo papillare, la rottura del setto interventricolare e quella della parete libera.

La rottura di un muscolo papillare è spesso associata a un infarto infero-posteriore, dovuto all’occlusione dell’arteria coronaria destra. Essa produce una grave insufficienza mitralica acuta ed è caratterizzata dall’improvvisa comparsa di un soffio sistolico puntale intenso con fremito, in presenza di edema polmonare.

La rottura del setto interventricolare, sebbene rara, è 8-10 volte più frequente della rottura di un muscolo papillare. È caratterizzata dall’improvvisa comparsa di un soffio sistolico intenso con fremito, più mediale rispetto all’apice, lungo il margine sternale sinistro a livello del 3o-4o spazio intercostale, accompagnato da ipotensione con o senza segni di insufficienza ventricolare sinistra. La diagnosi può essere confermata mediante l’inserimento di un catetere a palloncino per la determinazione e il confronto della saturazione di O2 o della Po2 di campioni di sangue prelevati dall’atrio destro, dal VD e dall’arteria polmonare. Un significativo aumento dei valori di Po2 nel VD è diagnostico. L’ecocardiografia Doppler è spesso diagnostica.

L’incidenza della rottura di cuore aumenta con l’età ed è più alta nelle donne. Si caratterizza per l’improvvisa caduta della PA, con persistenza momentanea del ritmo sinusale, e per la frequente presenza di segni di tamponamento cardiaco. È quasi sempre fatale.

Lo pseudoaneurisma è una forma di rottura della parete libera del VS, in cui una parete aneurismatica fatta da trombi e pericardio impedisce lo stravaso di sangue.

L’aneurisma ventricolare è comune, soprattutto in presenza di un grosso infarto transmurale (più comunemente anteriore) e di una buona funzione del miocardio restante. Gli aneurismi possono formarsi in alcuni giorni, settimane o mesi. Non vanno incontro a rottura, ma possono essere accompagnati da aritmie ventricolari ricorrenti e da bassa gittata cardiaca. Un altro rischio legato agli aneurismi ventricolari è la formazione di un trombo murale e l’embolizzazione sistemica. Il sospetto diagnostico deriva dal rilievo ispettivo o palpatorio di movimenti paradossi precordiali accompagnati da sopraslivellamento persistente del tratto ST all’ECG o da una caratteristica protrusione dell’ombra cardiaca alla rx del torace. L’ecocardiografia aiuta a fare diagnosi e a rilevare la presenza di un trombo. La somministrazione di ACE-inibitori durante la fase acuta di un infarto influisce sul rimodellamento del VS e può ridurre l’incidenza degli aneurismi.

Un’asinergia del ventricolo può verificarsi a causa della giustapposizione di miocardio normale e patologico in corso di IMA. Un segmento acinetico non si contrae e non mostra il caratteristico movimento di retrazione in sistole. Un segmento ipocinetico ha una ridotta escursione contrattile e una parziale compromissione della retrazione sistolica. Nel caso di infarti multipli, l’ipocinesia miocardica è diffusa e, se predominano la bassa gittata cardiaca e l’insufficienza cardiaca con congestione polmonare, si parla di miocardiopatia ischemica. Un segmento discinetico mostra un’espansione sistolica o un bulging (movimento paradosso). Queste alterazioni possono essere individuate mediante ecocardiografia bidimensionale, ventricolografia radionuclidica o angiografia e possono contribuire alla riduzione della funzione ventricolare e della tolleranza allo sforzo a lungo termine.

La trombosi murale si verifica in circa il 20% dei pazienti con IMA (60% dei pazienti con ampi infarti anteriori). L’embolia sistemica si ha in circa il 10% dei pazienti con trombosi del VS (meglio diagnosticata all’ecocardiografia); il rischio è più alto nei primi 10 giorni ma persiste almeno per 3 mesi.

La pericardite può causare uno sfregamento pericardico in circa 1/3 dei pazienti con IMA transmurale. Lo sfregamento compare di solito 24-96 h dopo l’insorgenza dell’IMA. Un esordio più precoce è insolito e suggerisce la possibilità di altre patologie (p. es., pericardite acuta), benché la pericardite emorragica possa occasionalmente complicare la fase precoce dell’IMA. Il tamponamento è raro.

La sindrome postinfartuale (sindrome di Dressler) si sviluppa in alcuni pazienti diversi giorni, o settimane o anche mesi, dopo l’IMA, ma negli ultimi anni la sua incidenza sembra essersi ridotta. È caratterizzata da febbre, pericardite con sfregamenti, versamento pericardico, dolore pleuritico, versamento pleurico, infiltrati polmonari e dolore articolare. Può essere difficile differenziare tale condizione da un’estensione dell’infarto o da un reinfarto, ma gli enzimi cardiaci non aumentano in maniera significativa. Questa sindrome può essere ricorrente.

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Diagnosi clinica e di laboratorio

Un IMA tipico viene diagnosticato mediante l’anamnesi, confermato dall’ECG iniziale e da successivi tracciati seriati e ulteriormente supportato dal rilievo di un movimento enzimatico. Tuttavia, in alcuni casi, la diagnosi definitiva può non essere possibile; i dati clinici possono essere tipici o fortemente suggestivi, in presenza di un ECG e di livelli enzimatici non diagnostici: i pazienti vengono classificati come portatori di un possibile o probabile IMA. È probabile che alcuni di questi pazienti abbiano subito un IMA di modesta estensione.

La diagnosi di IMA va presa in considerazione negli uomini > 35 anni e nelle donne > 50 anni che si lamentano soprattutto di un dolore toracico che va differenziato dal dolore dovuto a polmonite, embolia polmonare, pericardite, frattura costale, infrazione costocondrale, spasmo esofageo, dolorabilità dei muscoli toracici dopo un trauma o dopo attività fisica, dissezione aortica acuta, colica renale, infarto splenico e diverse patologie gastrointestinali. I pazienti confondono spesso il dolore dell’IMA con un’indigestione e la corretta valutazione di tale sintomo può essere resa difficile da una coesistente ernia iatale, ulcera peptica o patologia della colecisti. Nonostante il dolore dell’IMA sia comunemente alleviato dal vomito o dagli antiacidi, tale beneficio è solitamente di breve durata o solo parziale.

ECG: l’indagine diagnostica più importante nel paziente con sospetto IMA è l’ECG. Nell’IMA transmurale (infarto di tipo Q) l’ECG iniziale è di solito diagnostico, perché evidenzia onde Q anormalmente profonde e sopraslivellamento del tratto ST nelle derivazioni che sottendono l’area danneggiata; l’ECG può anche essere notevolmente alterato con tratto ST sopraslivellato o sottoslivellato e onda T invertita, in assenza di onde Q patologiche (v. Figg. 202-1, 202-2, 202-3, 202-4, 202-5 e 202-6). La comparsa di un blocco di branca sinistra ex novo può essere il segno di un IMA recente. L’immediata esecuzione di un ECG a 12 derivazioni è cruciale per decidere circa la terapia (i pazienti con sopraslivellamento del tratto ST possono beneficiare della terapia trombolitica; v. Terapia, più avanti). In presenza di sintomi caratteristici, il sopraslivellamento del tratto ST all’ECG ha una specificità del 90% e una sensibilità del 45% per la diagnosi di IMA. Tracciati ripetuti in serie che mostrano una graduale evoluzione verso un quadro stabile, più vicino alla normalità, o la comparsa di onde Q patologiche nel giro di pochi giorni, tendono a confermare l’ipotesi iniziale di un IMA. Gli infarti non transmurali (infarti non-Q) interessano di solito gli strati subendocardici o mesomiocardici, non sono caratterizzati dalla comparsa di onde Q diagnostiche all’ECG e comunemente producono solo modificazioni di grado variabile del tratto ST e dell’onda T. In alcuni pazienti, le alterazioni dell’ECG sono meno eclatanti, variabili o aspecifiche e perciò difficili da interpretare. Tuttavia, non è possibile diagnosticare un IMA quando ECG ripetuti sono normali. Un ECG normale in assenza di sintomatologia dolorosa non esclude la presenza di un’angina instabile che può evolvere verso un IMA.

Esami ematochimici: gli esami di routine evidenziano alterazioni compatibili con una necrosi tissutale. Dopo circa 12 h, la VES è aumentata e la conta leucocitaria è moderatamente elevata con spostamento a sinistra della formula di Arneth.

La CK-MB, componente miocardica della CK, si rileva in circolo entro 6 h dalla necrosi miocardica. I suoi livelli ematici persistono elevati per 36-48 h. Sebbene piccole quantità di CK-MB si trovino anche in altri tessuti, l’aumento della CK con componente MB > 40% è diagnostico, se associato a dati clinici suggestivi di IMA. Il dosaggio di routine della CK-MB all’ingresso e q 6-8 h nelle prime 24 h confermerà o esluderà la diagnosi. Una CK-MB normale per 24 h esclude praticamente un IMA. Anche la mioglobina e le proteine contrattili troponina-T e troponina-I vengono rilasciate in circolo dal miocardio infartuato. La troponina-T e la troponina-I sembrano essere marker molto sensibili di danno miocardico e possono sostituire l’analisi della CK-MB quando bisogna prendere delle decisioni cliniche in pazienti con dolore toracico ed ECG non diagnostico. Le troponine vengono rilasciate in alcuni pazienti con angina instabile e i livelli raggiunti correlano con la prognosi (quanto più alti, tanto maggiore è la probabilità di futuri eventi avversi).

Diagnostica per immagini (v. anche Cap. 198): per visualizzare un IMA, sono disponibili due tecniche. Il tecnezio-99m pirofosfato si accumula nel miocardio che ha subito un ( 3-4 giorni) infarto recente. Al contrario, il tallio-201 si concentra all’interno delle cellule del miocardio vitale mimando il K e si distribuisce in maniera direttamente proporzionale al flusso ematico. Tuttavia, la scintigrafia è costosa, richiede molto tempo e comporta l’esposizione a radiazioni; inoltre, le informazioni ottenute sono spesso solo di utilità marginale nella diagnosi e nel trattamento dell’IMA.

L’ecocardiografia può essere utile per valutare la cinetica di parete, la presenza di un trombo ventricolare, la rottura di un muscolo papillare, la rottura del setto interventricolare e la presenza di un trombo endocavitario in pazienti con infarto anteriore di tipo Q. Quando la diagnosi di IMA non è certa, il rilievo di anomalie della cinetica segmentaria del VS mediante ecocardiografia permette di stabilire che è presente un danno miocardico presumibilmente dovuto a un IMA recente o pregresso.

Cateterismo destro: il trattamento delle complicanze dell’IMA (p. es., lo scompenso cardiaco grave, l’ipossia, l’ipotensione) può giovarsi dei rilievi pressori nelle cavità destre, nell’arteria polmonare e nei capillari polmonari mediante cateteri a palloncino in posizione di incuneamento (Swan-Ganz). La gittata cardiaca può essere determinata mediante la tecnica di diluizione degli indicatori. Per le complicanze e altri dettagli circa il cateterismo cardiaco, v. Cap. 198.

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Prognosi

Cinque caratteristiche cliniche predicono il 90% della mortalità nei pazienti che si presentano con un IMA o con sopraslivellamento del tratto ST e ricevono terapia trombolitica: età avanzata (31% della mortalità totale), ridotti valori di PA sistolica (24%), classe Killip > 1 (15%), aumentata frequenza cardiaca (12%) e localizzazione in sede anteriore (6%). Nonostante gli sforzi che si vanno compiendo per ottimizzare i programmi di terapia per l’IMA, queste variabili cliniche iniziali influenzano la prognosi in maniera altamente significativa.

Il 60% della mortalità totale per IMA è dovuta a FV primaria, che si verifica prima che il paziente giunga in ospedale. La mortalità dei pazienti che sopravvivono all’iniziale fase ospedaliera, a un anno dall’IMA, è dell’8-10%: la maggior parte dei decessi si verifica durante i primi 3-4 mesi. Dei pazienti che recuperano, sono ad alto rischio quelli con: aritmie ventricolari persistenti, scompenso cardiaco o ridotta funzione ventricolare, ischemia ricorrente. Pareri autorevoli raccomandano l’uso di un test ergometrico limitato dai sintomi (v. Prevenzione della Malattia Coronarica sopra) al momento della dimissione o entro 6 settimane dall’IMA. Una buona tolleranza allo sforzo fisico in assenza di modificazioni ECG è associata a una prognosi favorevole; in tal caso, ulteriori valutazioni non sono abitualmente necessarie. Una prova da sforzo anormale è associata ad una prognosi sfavorevole.

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Terapia

La terapia deve mirare a ridurre il livello di stress, eliminare l’ischemia, limitare l’area della necrosi, ridurre il lavoro cardiaco e prevenire e trattare le complicanze (v. oltre). L’IMA è un’emergenza medica e l’esito finale è influenzato in maniera significativa da una diagnosi e un trattamento rapidi.

L’UTIC deve essere un ambiente calmo, tranquillo, riposante. È preferibile la camera singola, e deve essere assicurata al paziente una certa privacy, compatibilmente con le esigenze di monitoraggio delle sue funzioni vitali. Nei primi giorni di malattia vanno evitate le visite e va ridotto al minimo il contatto con l’esterno (p. es., radio, quotidiani). L’orologio, il calendario e una finestra aiuteranno il paziente a orientarsi e impediranno che si senta isolato.

Sono comuni ansietà, modificazioni dell’umore e un atteggiamento di rifiuto. Viene spesso somministrato un blando tranquillante (di solito una benzodiazepina), ma molti ritengono che tali farmaci siano raramente necessari. La depressione psichica è frequente entro il 3o giorno di malattia ed è quasi universale durante la fase di guarigione. Superata la fase acuta, gli obiettivi principali consistono nel trattamento della depressione psichica, nella riabilitazione e nell’istituzione di un programma di prevenzione a lungo termine. Enfatizzare eccessivamente l’importanza del riposo a letto, l’inattività e la gravità della malattia rafforza la tendenza alla depressione del paziente. Un impatto positivo è dato da un’accurata spiegazione delle caratteristiche della malattia e dalla descrizione di un programma di riabilitazione mirato, sulla base della situazione del paziente.

Fa parte delle misure generali mantenere normali le funzioni intestinali ed evitare sforzi per la defecazione usando lassativi. Nei pazienti più anziani è comune la ritenzione urinaria, particolarmente dopo diversi giorni di riposo a letto e dopo terapia con atropina. Può rendersi necessaria l’applicazione di un catetere vescicale, che comunque in genere può essere rimosso non appena il paziente è in grado di alzarsi in piedi o di mettersi seduto per svuotare la vescica e l’alvo.

Il fumo va proibito: la degenza in UTIC è una delle motivazioni più efficaci per la sospensione del fumo. Il medico deve impegnarsi a fondo per rafforzare nel paziente la convinzione a smettere definitivamente di fumare.

I pazienti in fase acuta hanno scarso appetito, ma modiche quantità di alimenti piacevoli sono psicologicamente utili. I pazienti vengono di solito alimentati con una dieta semiliquida da 1500-1800 kcal/die, con un ridotto apporto di Na (2-3 g/die, cioè 87-130 mEq/die). La restrizione di Na non è più necessaria dopo i primi 2-3 giorni per i pazienti che non hanno evidenza di scompenso cardiaco. Va usata una dieta a ridotto contenuto di colesterolo e di grassi saturi per iniziare a educare il paziente a più sane abitudini alimentari.

Terapia iniziale: il 50% dei decessi da IMA si verifica entro 3-4 ore dall’insorgenza dei sintomi e la prognosi può essere influenzata dalla terapia praticata in questi primi momenti. Il principale fattore che ritarda la terapia è il diniego del paziente, che non riconosce i propri sintomi come indice di una patologia grave e potenzialmente letale. Un immediato rischio per la sopravvivenza è costituito dalla FV primaria (FV senza BEV precedenti) o, occasionalmente, dal blocco cardiaco o dalla bradicardia estrema con conseguente ipotensione che porta all’arresto cardiaco. Un trattamento iniziale ottimale comprende una rapida diagnosi, il controllo del dolore e dell’ansia, la stabilizzazione del ritmo cardiaco e della PA, la somministrazione di un trombolitico, se possibile (v. Terapia trombolitica, più avanti), e il trasporto presso un ospedale mediante un’ambulanza dotata di dispositivi per il monitoraggio continuo del paziente.

Ogni Pronto Soccorso dovrebbe avere sistemi per il triage immediato del paziente con dolore toracico, per consentire una rapida valutazione delle condizioni cliniche del paziente e l’esecuzione di un ECG urgente. Va stabilita un’affidabile via venosa, va prelevato del sangue per l’analisi degli enzimi e va stabilito un monitoraggio continuo dell’ECG (su una derivazione). L’efficienza dei servizi medici d’emergenza, compresa la disponibilità di un elettrocardiografo portatile, la possibilità di una trombolisi precoce quando indicata e l’esecuzione di un triage adeguato che indirizzi verso l’ospedale più appropriato (ciò dipende da una corretta valutazione iniziale del paziente), influiscono sulla mortalità e sulle complicanze.

I pazienti a basso rischio non hanno bisogno di essere ricoverati in UTIC. Nonostante l’ampia varietà di apparecchi di monitoraggio elettronico disponibili, solo la frequenza cardiaca e il ritmo (come rilevati sulla base dall’ECG) si sono dimostrati utili per il monitoraggio continuo di routine. Personale paramedico qualificato può riconoscere le aritmie all’ECG e avviare immediatamente i protocolli per la terapia. Tutto il personale paramedico professionale deve essere addestrato a eseguire la rianimazione cardiorespiratoria di base (v. Cap. 206).

Va somministrata aspirina alla dose di 160-325 mg (se non controindicata) al momento dell’esordio dei sintomi e, successivamente, una volta al giorno, per sempre. Sembra che la prima dose sia assorbita più velocemente se masticata. Il suo effetto antiaggregante riduce la mortalità a breve e lungo termine.

L’ossigeno viene somministrato mediante maschera facciale al 40% o cannule nasali a 4-6 l/ min solo nelle prime ore.

La morfina, a dosi di 2-4 mg EV ripetute al bisogno, è altamente efficace per il dolore dell’IMA, ma può deprimere il respiro, può ridurre la contrattilità miocardica ed è un potente vasodilatatore venoso. All’ipotensione e alla bradicardia legate alla somministrazione di morfina si può in genere ovviare sollevando gli arti inferiori. Il dolore persistente può essere alleviato in alcuni pazienti dalla somministrazione di nitroglicerina, inizialmente per via sublinguale e poi in infusione EV continua a goccia lenta, se necessario.

La maggior parte dei pazienti è moderatamente ipertesa all’arrivo in Pronto Soccorso e la PA scende gradualmente nel corso delle ore successive. L’ipotensione grave o i segni di shock hanno un significato infausto e devono essere trattati in maniera aggressiva. L’ipertensione arteriosa persistente richiede una terapia aggressiva con antiipertensivi, preferibilmente EV, per abbassare la PA e ridurre il lavoro cardiaco.

Terapia trombolitica: la terapia trombolitica è massimamente efficace se somministrata entro pochi minuti o poche ore dall’esordio dell’IMA e ciò rende necessario fare la diagnosi rapidamente. Nella fase acuta di un IMA di tipo Q, i trombolitici riducono la mortalità ospedaliera del 30-50%, se usati insieme all’ASA, e migliorano la funzione ventricolare. Quanto più precoce è la terapia trombolitica, tanto migliori sono i risultati a distanza. Il beneficio maggiore si ha entro 3 h, ma è stato dimostrato che la trombolisi può risultare efficace anche quando praticata dopo 12 h. Il sopraslivellamento del tratto ST individua i candidati alla terapia trombolitica. Ogni sforzo deve essere fatto per raggiungere un tempo "dalla porta all’ago" ("door to needle")  30 min. Circa il 50% dei pazienti con un IMA dimostrato dal rilievo di movimento enzimatico non ha un sopraslivellamento del tratto ST od onde Q.

La fissurazione o la rottura di una placca o ancora l’emorragia all’interno di una placca, con successiva occlusione del vaso da parte di un trombo, sono comunemente la causa dell’IMA. Nell’occlusione sperimentale di una coronaria, la necrosi progredisce dal subendocardio al subepicardio e la maggior parte della necrosi si completa entro 6 h. Le maggiori possibilità di recupero del miocardio si hanno se il vaso viene riaperto entro 2 h.

La trombolisi deve essere presa in considerazione nei pazienti che presentano un sopraslivellamento del tratto ST in due o più derivazioni contigue, nei pazienti con sintomi tipici in cui la presenza di un blocco di branca non consente di apprezzare le modificazioni ECG suddette, in quelli con IMA solo posteriore (che si presentano con una r o R e un sottoslivellamento del tratto ST in V1-V4) e nel paziente (raro) che si presenta con onde T giganti. Il miglioramento è più significativo nei pazienti con infarto anteriore o blocco di branca. Gli infarti non-Q non si accompagnano in genere a un trombo totalmente occlusivo e non sono solitamente trattati con trombolisi, perché non ci sono evidenze di un vantaggio terapeutico.

L’effetto terapeutico correla con il grado di riperfusione dell’arteria coronaria ostruita. L’ipotesi dell’"arteria aperta" ("open artery") asserisce che la pervietà dell’arteria dopo un’occlusione acuta predice la sopravvivenza dopo l’IMA.

Il maggior rischio della terapia trombolitica è l’emorragia, in particolare l’emorragia endocranica (circa 1%). Tale rischio è maggiore nei pazienti > 65 anni, ma un chiaro beneficio della trombolisi può essere dimostrato in pazienti selezionati fino a 75 anni d’età con un peso corporeo > 70 kg, in assenza di ipertensione o di una storia di emorragia endocranica. Le controindicazioni comprendono: chirurgia toracica o addominale nel mese precedente, sanguinamento GI o GU attivo (ma non mestruazioni), trauma cranico, ictus o attacco ischemico transitorio recente e ipertensione sistolica con valori di PAS > 180 mm Hg. Non ci deve essere evidenza di dissezione aortica o pancreatite.

Streptokinasi, anistreplase (complesso di streptokinasi e attivatore tissutale del plasminogeno), alteplase e reteplase sono disponibili per uso EV. Questi attivatori del plasminogeno trasformano il plasminogeno a catena singola in plasminogeno a catena doppia, che ha attività fibrinolitica. Tuttavia, questi farmaci differiscono fra loro per molte caratteristiche cliniche importanti (v. Tab. 202-4).

La streptokinasi (1,5 milioni di U somministrati in 30-60 min) può provocare reazioni allergiche, soprattutto se utilizzata in precedenza; tuttavia, comporta una minore incidenza di emorragia cerebrale, non richiede concomitante terapia eparinica, ricanalizza l’arteria coinvolta meno frequentemente ed è relativamente poco costosa. L’alteplase viene utilizzato in un dosaggio accelerato ("front-loaded") di 100 mg EV in 90 min, secondo lo schema seguente: 15 mg in bolo, poi 0,75 mg/kg nei 30 min successivi (fino a un massimo di 50 mg) e infine 0,50 mg/kg in 60 min (fino a un massimo di 35 mg). Si raccomanda di associare eparina EV all’alteplase, perché questo aumenta la probabilità di ristabilire la pervietà del vaso. L’alteplase non provoca allergie, riesce a riaprire il vaso più frequentemente rispetto agli altri trombolitici ed è più costoso. L’anistreplase viene somministrato alla dose di 30 mg EV in 5 min. Ha una lunga emivita, può provocare allergie e ha caratteristiche intermedie fra gli altri due trombolitici. Il reteplase è simile all’alteplase e va somministrato alla dose di 10 U in un bolo di 2 min, da ripetere dopo 30 min.

Terapia antitrombotica associata: l’utilizzo e la via di somministrazione dell’eparina dipendono dal trombolitico usato e dal rischio tromboembolico. L’eparina EV va somministrata all’inizio della terapia con alteplase alla dose di 70 U/kg in bolo con un successivo mantenimento di circa 15 U/kg/h, da aggiustare poi in modo da mantenere il PTT su valori di 1,5-2 volte il valore basale (50-75 s) per 48 ore. La somministrazione di eparina EV può essere proseguita > 48 h nei pazienti ad alto rischio per eventi tromboembolici. L’eparina EV non è, al momento attuale, raccomandata in associazione agli altri trombolitici e i potenziali vantaggi della sua somministrazione per via sottocutanea non sono chiari. Tuttavia, nei pazienti ad alto rischio di embolia sistemica (IMA anteriore esteso, trombo in VS, fibrillazione atriale), l’eparina EV (a dose piena, come quella sopra descritta in associazione all’alteplase) riduce l’incidenza di eventi tromboembolici.

L’utilità dell’irudina, un nuovo farmaco antitrombotico diretto, resta ancora da stabilire. L’efficacia delle eparine a basso peso molecolare nell’angina e nell’IMA non è ancora stata dimostrata in maniera definitiva. Sono attualmente in corso trial clinici sugli antagonisti del recettore piastrinico glicoproteina IIb/IIIa, per stabilire la loro utilità nelle sindromi coronariche acute. L’abciximab è già stato approvato per prevenire la ricorrenza della trombosi coronarica nei pazienti ad alto rischio sottoposti ad angioplastica. È stato dimostrato che il tirofiban previene gli eventi ischemici acuti nell’infarto non-Q e nell’angina instabile.

Farmaci che riducono il lavoro cardiaco: la funzione cardiaca dopo il recupero dipende in larga parte dalla massa di miocardio funzionante che sopravvive all’episodio acuto. Cicatrici da pregressi infarti si sommano al danno acuto. Quando il danno totale supera il 50% della massa del VS, è insolito che il paziente sopravviva. La riduzione del fabbisogno di O2 da parte del miocardio mediante riduzione del postcarico con vasodilatatori o riduzione della frequenza cardiaca e della contrattilità con b-bloccanti limita l’area dell’infarto.

I b-bloccanti riducono l’incidenza di FV e sono raccomandati, se non controindicati, soprattutto nei pazienti ad alto rischio. La somministrazione EV di b-bloccanti entro poche ore dall’insorgenza dei sintomi migliora la prognosi perché riduce l’area di necrosi, la frequenza di recidive, l’incidenza di FV e la mortalità. Clinicamente, i b-bloccanti riducono la frequenza cardiaca, la pressione arteriosa e la contrattilità, riducendo così il lavoro cardiaco e il fabbisogno di O2. La loro utilità è meno evidente nell’IMA non-Q. Le controindicazioni comprendono bradicardia, blocco cardiaco e asma.

Se l’atenololo (5 mg EV in 5 min seguiti, dopo 10 min, da altri 5 mg EV in 5 min) è ben tollerato, viene somministrato PO (50 mg 10 min dopo e poi ancora 12 h più tardi); si prosegue poi con 50 mg bid o 100 mg/die. Se il metoprololo (5 mg EV q 2 min per un totale di tre dosi) è ben tollerato, viene somministrato PO (50 mg q 12 h), iniziando 15 min dopo l’ultima somministrazione EV. Si continua così per 48 h, quindi si passa a 100 mg/die. La frequenza cardiaca e la PA devono essere strettamente monitorate durante l’incremento delle dosi e successivamente. Il dosaggio va ridotto se compaiono bradicardia o ipotensione. Un eccessivo effetto b-bloccante può essere contrastato mediante somministrazione di isoproterenolo (un agonista b-adrenergico) alla dose di 1-5 mg/min EV.

Gli ACE-inibitori sembrano ridurre la mortalità nei pazienti con IMA, soprattutto nel caso di infarto anteriore, insufficienza cardiaca o tachicardia. Il beneficio maggiore si ha nei pazienti a più alto rischio, subito all’inizio e poi durante tutta la convalescenza. Gli ACE-inibitori vanno somministrati > 24 h dopo la fine della trombolisi e, visto che il loro effetto positivo è protratto nel tempo, possono essere prescritti come terapia a lungo termine. Le controindicazioni comprendono ipotensione, insufficienza renale, stenosi bilaterale dell’arteria renale e intolleranza nota.

I vasodilatatori possono risultare utili per ridurre il lavoro cardiaco in pazienti selezionati con IMA. È preferibile un farmaco EV a breve durata d’azione, con un rapido inizio e una rapida fine dell’effetto farmacologico. La nitroglicerina EV è raccomandata durante le prime 24-48 h nei pazienti con IMA e scompenso cardiaco o IMA anteriore esteso o ischemia persistente o ipertensione (la PA sistemica va ridotta di 10-20 mm Hg, ma non < 80-90 mm Hg di pressione sistolica). Periodi maggiori di terapia possono essere utili nei pazienti con angina ricorrente o congestione polmonare persistente. L’infusione va iniziata a 5 mg/min e aumentata di 2,5-5,0 mg a intervalli di pochi minuti fino a che non venga raggiunta la risposta desiderata. La nitroglicerina dilata le vene, le arterie e le arteriole, riducendo il precarico e il postcarico del VS. La riduzione del lavoro cardiaco e del consumo miocardico di O2 migliora l’ischemia miocardica. Evidenze da trial clinici suggeriscono che la nitroglicerina nelle prime ore dell’IMA riduce l’estensione della necrosi e riduce la mortalità nei pazienti a più alto rischio, a breve e probabilmente a lungo termine. Tali dati non supportano l’uso di routine della nitroglicerina nei pazienti a basso rischio, in assenza di complicanze.

Angioplastica cardiaca transluminale percutanea (Percutaneous Transluminal Cardiac Angioplasty, PTCA) primaria: la PTCA come terapia iniziale è tanto efficace almeno quanto, e in alcuni laboratori di emodinamica può essere anche un po’ più efficace, la trombolisi nel limitare l’estensione della necrosi e nel ridurre gli eventi cardiaci avversi e la mortalità nei pazienti con IMA caratterizzato da sopraslivellamento del tratto ST o blocco di branca sinistra. Il successo della PTCA in genere dipende dall’abilità degli operatori, dall’esperienza del laboratorio e dal tempo trascorso dall’inizio dei sintomi all’esecuzione del cateterismo. Tuttavia, solo pochi pazienti con IMA hanno accesso a un buon team di emodinamisti. Alcune evidenze isolate ipotizzano un ruolo per la PTCA o per l’intervento di bypass aorto- coronarico in pazienti con IMA massivo di recente insorgenza e ipotensione grave o shock.

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Trattamento delle complicanze

La bradicardia sinusale (v. anche Cap. 205) non viene solitamente trattata, a meno che la frequenza cardiaca non sia inferiore a 50 bpm. La bradicardia marcata con ipotensione può rispondere alla somministrazione EV di 0,5-1 mg di atropina solfato, che può essere ripetuta dopo diversi minuti se la risposta non è adeguata. Piccole dosi ripetute nel tempo sono preferibili, perché dosi eccessive possono indurre tachicardia. Occasionalmente, è necessario inserire un pacemaker temporaneo per via transvenosa.

La tachicardia sinusale persistente, in assenza di insufficienza cardiaca o di altre cause evidenti, può rispondere ai b-bloccanti, somministrati PO o EV a seconda dell’urgenza.

I battiti ectopici atriali (BEA) di solito vanno trattati prontamente perché spesso precedono un’aritmia atriale sostenuta. I BEA frequenti possono rispondere alla digitale, a un b-bloccante o al calcioantagonista verapamil.

Nella fibrillazione atriale, a causa del rischio di embolia sistemica, solitamente si somministra eparina. I b-bloccanti EV riducono la frequenza cardiaca (p. es., atenololo 2,5-5,0 mg in 2 min fino a una dose totale di 10 mg in 10-15 min, metoprololo 2-5 mg ogni 2-5 min fino a una dose totale di 15 mg in 10-15 min). La frequenza cardiaca e la PA vanno attentamente monitorate. La terapia si sospende quando la frequenza ventricolare si è ridotta in maniera soddisfacente o la PAS è < 100 mm Hg. La digitale EV è anche efficace nei pazienti che sono a riposo, sebbene l’effetto bradicardizzante si instauri più lentamente rispetto ai b-bloccanti: la dose di digossina è di 0,6-1,0 mg EV (8-15 mg/kg), di cui la metà subito e il resto in 4-6 h. Un certo rallentamento della frequenza può aversi entro 1/2 h, ma l’effetto pieno si verifica dopo circa 2 ore. Un rallentamento della frequenza può anche essere ottenuto con il verapamil o il diltiazem EV. In presenza di compromissione emodinamica con progressiva insufficienza del VS o ipotensione in coincidenza dell’instaurarsi della fibrillazione atriale, la cardioversione elettrica d’urgenza può avere un effetto drammatico, se si riesce poi a mantenere il ritmo sinusale.

Il flutter atriale viene trattato in maniera simile alla fibrillazione atriale.

Nel blocco atrioventricolare con complessi QRS lenti e larghi o nel blocco Mobitz II vero con battiti mancanti, si possono ripristinare temporaneamente il ritmo e la frequenza mediante infusione di isoproterenolo, ma un pacemaker temporaneo transvenoso è la terapia di scelta. L’atropina (0,5-1,0 mg ogni 3-5 min fino a una dose totale di 2,5 mg) può essere utile nella bradicardia sinusale, nel blocco cardiaco con complessi QRS stretti e bassa frequenza ventricolare o, occasionalmente, nell’asistolia. L’atropina non è raccomandata nel blocco cardiaco di nuova comparsa con complessi QRS larghi. Modificazioni reversibili della conduzione atrioventricolare e anomalie della conduzione tipo Mobitz I con un prolungamento dell’intervallo PR (o fenomeno di Wenckebach) si autolimitano e, se viene mantenuta una frequenza cardiaca accettabile, non richiedono alcun trattamento.

In caso di aritmie ventricolari, un’ipossia evidente va trattata intensivamente con O2 tramite cannule nasali o maschere facciali e vanno ricercate le eventuali cause trattabili dell’ipossia (p. es., congestione polmonare, ipoventilazione). L’ipokaliemia va corretta, dato che forti evidenze cliniche mettono in relazione bassi livelli sierici di K con aritmie ventricolari. Va anche trattata l’ipomagnesiemia, sebbene i suoi rapporti con le aritmie siano meno chiari. La somministrazione di b-bloccanti (dapprima EV e successivamente PO) nelle prime fasi dell’IMA, in assenza di insufficienza cardiaca o ipotensione, riduce l’incidenza di aritmie ventricolari, compresa la FV.

I battiti ectopici ventricolari (BEV) in genere non richiedono alcun trattamento. La profilassi non previene la TV o la FV, aumenta la mortalità e non è raccomandata. Le TV non sostenute e perfino le TV sostenute a frequenza relativamente bassa, in assenza di compromissione emodinamica, di solito non richiedono alcuna terapia. Le TV polimorfe o le TV sostenute monomorfe, in presenza di insufficienza cardiaca o ipotensione, vanno trattate con shock elettrico. Se ben tollerata emodinamicamente, la TV può essere trattata mediante somministrazione EV di lidocaina, procainamide o amiodarone. La FV va trattata immediatamente con uno shock elettrico non sincronizzato.

Nell’insufficienza cardiaca, il trattamento dipende dalla gravità; nei casi lievi è necessaria cautela. L’uso di un diuretico dell’ansa (p. es., furosemide 20-40 mg EV una o due volte/die) per ridurre la pressione di riempimento ventricolare dà spesso risultati soddisfacenti. Può anche essere utile la riduzione del precarico e del postcarico con nitroglicerina EV. Nei casi gravi, si misura la pressione capillare polmonare mediante cateterismo cardiaco destro (Swan-Ganz), mentre si somministra terapia con vasodilatatori per ridurre il precarico e il postcarico. Se la PA è normale o alta, si possono utilizzare gli ACE-inibitori.

Nell’infarto del VD, la riduzione del precarico causata dai nitrati o dai diuretici riduce la gittata cardiaca e provoca un’ipotensione grave, se il VD è ischemico o necrotico. La somministrazione di un carico di liquidi (1-2 l di soluzione fisiologica) è spesso efficace. Un supporto inotropo con dobutamina può essere d’aiuto.

Nell’ipossiemia, va somministrato O2 mediante cannula nasale per mantenere la PaO2 intorno ai 100 mm Hg. Ciò può favorire l’ossigenazione del miocardio e può limitare l’estensione dell’infarto nell’ambito della zona ischemica.

Nell’ipotensione dovuta a ipovolemia, il ripristino della volemia è solitamente possibile senza sovraccaricare il cuore sinistro (senza, cioè, un eccessivo aumento della pressione atriale sinistra). Tuttavia, la funzione del VS a volte è così compromessa che un’adeguata somministrazione di liquidi è estremamente difficoltosa perché, in presenza di normali livelli di proteine plasmatiche, è accompagnata da un netto aumento della pressione capillare polmonare fino a livelli associati a edema polmonare (> 25 mm Hg). Se la pressione atriale sinistra è elevata, l’ipotensione è probabilmente secondaria a insufficienza del VS e può essere necessaria una terapia inotropa o di supporto circolatorio se i diuretici non sono efficaci.

Nello shock cardiogeno, la somministrazione di a-b agonisti può risultare temporaneamente efficace. La dopamina, una catecolamina con effetti a e b1, viene somministrata alla dose iniziale di 0,5-1 mg/kg/min, che viene poi incrementata finché non si raggiunge una risposta soddisfacente o una dose totale di circa 10 mg/kg/min; dosi maggiori inducono vasocostrizione. La dobutamina, un b-agonista, può essere somministrata EV alla dose di 2,5-10 mg/kg/min o anche a dosi maggiori. La dobutamina risulta particolarmente efficace quando l’ipotensione è secondaria a una bassa gittata cardiaca, mentre la dopamina può essere più efficace quando è anche richiesto un effetto vasopressorio. In casi refrattari, la dobutamina e la dopamina possono essere associate. Il contropulsatore aortico spesso costituisce una misura di supporto temporaneo. È stato riportato che si può ottenere un importante recupero della funzione ventricolare con la lisi diretta del coagulo a livello della coronaria colpita, con l’angioplastica del vaso interessato o con l’intervento di bypass aorto-coronarico d’emergenza. La PTCA o l’intervento di bypass aorto-coronarico d’emergenza o d’urgenza vanno presi in considerazione nel caso di ischemia persistente, di aritmie ventricolari refrattarie o d’instabilità emodinamica o shock in pazienti con un’anatomia coronarica favorevole.

L’ischemia ricorrente viene trattata in modo simile all’angina instabile. La nitroglicerina sl o EV è di solito efficace. Dopo la terapia con vasodilatatori, vanno presi in considerazione l’angiografia coronarica e l’angioplastica o l’intervento di bypass, con l’obiettivo di salvare il miocardio ischemico.

La disfunzione del muscolo papillare, se dovuta a insufficienza funzionale del muscolo papillare, va semplicemente tenuta sotto controllo perché può migliorare a mano a mano che l’ischemia regredisce. Se la causa è la rottura del muscolo papillare, la sostituzione della valvola mitrale è certamente coronata da successo.

Nella rottura del miocardio, nonostante la mortalità sia alta, può essere necessaria la riparazione chirurgica del difetto. L’intervento chirurgico deve essere dilazionato il più a lungo possibile dopo un IMA per permettere il massimo grado di guarigione del miocardio infartuato.

Nel caso di uno pseudoaneurisma, è sempre indicata l’immediata correzione chirurgica.

Nel caso di un aneurisma ventricolare, l’intervento chirurgico può essere indicato quando l’insufficienza del VS o le aritmie persistono, in presenza di un aneurisma significativo dal punto di vista funzionale.

In presenza di trombosi parietale, la terapia anticoagulante riduce il rischio di embolia. Se non è controindicata, la terapia va incominciata con dosi piene di eparina EV, seguite da warfarin PO per 3-6 mesi, mantenendo l’INR fra 2 e 3. L’aspirina può anche essere prescritta come profilassi successiva, per tutta la vita. La terapia anticoagulante va continuata per tutta la vita in presenza di un VS ingrandito e diffusamente ipocinetico o di fibrillazione atriale cronica.

Nella pericardite, l’aspirina o un altro FANS di solito allevia i sintomi.

Nella sindrome post-IMA (sindrome di Dressler), i pazienti solitamente rispondono a terapia con alte dosi di aspirina (600-900 mg q 4-6 h), ma la sindrome può recidivare svariate volte. Un breve periodo di terapia cortisonica intensiva o un altro FANS può essere necessario nei casi gravi.

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Terapia dopo la dimissione dall’ospedale

Una TV sostenuta ( 30 s) va trattata, ma ci si deve aspettare che altre aritmie ventricolari insorgano successivamente. La stimolazione ventricolare programmata per guidare la scelta del farmaco antiaritmico più efficace può migliorare la prognosi in pazienti con TV ricorrente sostenuta. L’arteriografia coronarica e la valutazione di un’eventuale rivascolarizzazione (mediante angioplastica o bypass aorto-coronarico) possono essere indicate in pazienti con angina postinfartuale ricorrente o con un test da sforzo positivo per ischemia.

Prevenzione secondaria di recidive tardive di IMA e di morte: l’aspirina riduce del 15-30% la mortalità e il rischio di reinfarto in pazienti post-IMA. Si raccomanda una terapia a lungo termine con preparazioni gastro-protette di aspirina alla dose di 160-325 mg/die. Anche il warfarin, associato all’aspirina, riduce l’incidenza di reIMA, ma, se utilizzato da solo in assenza di un trombo del VS o di fibrillazione atriale, non dà alcun beneficio.

Il timololo, il propranololo e il metoprololo riducono la mortalità post-IMA di circa il 25% per  7 anni. I pazienti ad alto rischio vanno trattati con b-bloccanti. Si discute molto se i pazienti a basso rischio debbano essere trattati o no. Essendo tali farmaci ben tollerati, sembra ragionevole trattare tutti i pazienti che non presentano effetti collaterali, o che ne riferiscono solo di minimi, e sono determinati a continuare la terapia a lungo termine.

Riabilitazione: il riposo a letto nei primi 1-3 giorni è prudente, finché l’evoluzione clinica non è chiara. Un riposo più prolungato provoca un rapido deterioramento fisico con sviluppo di ipotensione ortostatica, ridotta capacità lavorativa e incremento della frequenza cardiaca sotto sforzo. Risulta inoltre favorita in tal caso la tendenza alla depressione e la sensazione di inutilità. In assenza di complicanze si può permettere al paziente di restare seduto, di fare esercizi passivi e di usare il lavabo già in prima giornata. Dopo breve tempo gli si consentirà la lettura o il lavoro d’ufficio non stressante e gli si permetterà di recarsi in bagno camminando. In assenza di complicanze, è ragionevole, e non comporta un rischio significativo, prevedere la dimissione dall’ospedale dopo 5-7 giorni.

L’attività fisica verrà gradualmente incrementata nelle successive 3-6 sett. La ripresa dell’attività sessuale rappresenta spesso un’importante preoccupazione e può essere incoraggiata, insieme ad altre attività fisiche di entità moderata. Se la funzione cardiaca è conservata a 6 sett. dall’IMA, la maggior parte dei pazienti può tornare alla propria attività abituale. Un regolare programma di esercizi, compatibile con lo stile di vita, l’età e le condizioni cardiache, è protettivo e migliora il generale stato di salute.

L’impatto della malattia acuta e del trattamento in UTIC rappresenta una forte motivazione per il medico e per il paziente ad analizzare e trattare i fattori di rischio. La trattazione e la valutazione delle condizioni fisiche ed emotive del paziente e un’adeguata informazione circa il fumo, la dieta, il lavoro, lo stile di vita e l’esercizio fisico, insieme al trattamento dei fattori di rischio noti, possono migliorare la prognosi del paziente. Dati recenti hanno dimostrato una progressione più lenta e perfino una regressione delle lesioni aterosclerotiche con il trattamento dell’ipercolesterolemia mediante la dieta e gli inibitori dell’idrossimetilglutaril-coA-reduttasi (statine); è dunque motivato un approccio terapeutico aggressivo (v. anche Cap. 201).

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