16. MALATTIE DELL’APPARATO CARDIOVASCOLARE

202. CORONAROPATIA

ANGINA PECTORIS

Sindrome clinica dovuta a ischemia del miocardio, caratterizzata da dolore precordiale a carattere oppressivo e costrittivo, di solito scatenata dallo sforzo e alleviata dal riposo o dalla nitroglicerina sublinguale.

Sommario:

Eziologia
Anatomia patologica e patogenesi
Sintomi e segni
Diagnosi
Diagnosi differenziale
Prognosi
Terapia
ANGINA INSTABILE
ANGINA VARIANTE


Eziologia

La causa è di solito una stenosi critica delle arterie coronarie dovuta all’aterosclerosi. Lo spasmo (idiopatico o dovuto alla cocaina) o, raramente, un’embolia coronarica possono esserne la causa (v. Infarto Miocardico, più avanti). Patologie diverse dall’aterosclerosi (p. es., la stenosi aortica calcifica, l’insufficienza aortica, la stenosi subaortica ipertrofica) possono causare angina di per sé (perché aumentano il lavoro cardiaco) o in associazione alla malattia coronarica.

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Anatomia patologica e patogenesi

Di solito, nei pazienti che hanno una storia d’angina di lunga durata, l’autopsia mostra un’aterosclerosi coronarica estesa e una fibrosi miocardica parcellare. Possono esserci evidenze macroscopiche o microscopiche di un vecchio IMA.

Si ha angina pectoris quando il lavoro cardiaco e le richieste miocardiche di O2 superano la capacità di apporto di sangue ossigenato da parte delle coronarie. Frequenza cardiaca, tensione sistolica o pressione arteriosa e contrattilità sono i maggiori determinanti del fabbisogno miocardico di O2. L’aumento di uno qualsiasi di questi fattori in condizioni di flusso coronarico ridotto può indurre angina. Per questo, nel paziente che ha una stenosi coronarica critica, lo sforzo fisico provoca una crisi anginosa che si risolve poi con il riposo.

Quando il miocardio diviene ischemico, il pH del sangue del seno coronarico si riduce, si ha perdita di K intracellulare, la produzione di lattato reintegra le quote utilizzate, compaiono alterazioni dell’ECG e la funzione ventricolare si riduce. La pressione diastolica del ventricolo sinistro (VS) spesso aumenta durante l’angina, talora sino a valori che determinano congestione polmonare e dispnea. Si ritiene che l’angina sia una diretta conseguenza dell’ischemia miocardica e del conseguente accumulo di metaboliti ipossici.

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Sintomi e segni

L’angina pectoris non è solitamente percepita come un vero e proprio dolore. Può essere un dolore vago, appena fastidioso, oppure può diventare rapidamente una sensazione di oppressione precordiale grave e molto intensa. Ha una localizzazione variabile, ma è più comunemente avvertita in sede retrosternale. Può irradiarsi alla spalla sinistra e giù lungo il braccio sinistro anche fino alle dita; direttamente alla schiena, alla gola, alla mandibola e ai denti e occasionalmente lungo il versante interno del braccio destro. Può anche essere avvertita a livello dei quadranti addominali superiori. Poiché il fastidio è raramente avvertito nella regione dell’apice cardiaco, il paziente che indica con precisione tale area o descrive il dolore come una sensazione evanescente, di calore o tipo fitta, di solito non ha un’angina.

Fra una crisi e l’altra e perfino durante la crisi d’angina, possono non esserci segni di cardiopatia. Tuttavia, durante l’attacco, la frequenza cardiaca può aumentare leggermente, la PA è spesso elevata, i toni cardiaci si fanno più lontani e l’itto puntale diviene più diffuso. La palpazione del precordio può evidenziare un impulso sistolico localizzato o un movimento paradosso, espressione di ischemia segmentaria e di discinesia regionale. Il secondo tono può avere uno sdoppiamento paradosso, a causa del prolungamento dell’eiezione del VS durante l’episodio ischemico. È frequente un quarto tono. Si può apprezzare un soffio mesosistolico o telesistolico apicale, di tonalità piuttosto alta ma non particolarmente intenso, dovuto alla disfunzione localizzata di un muscolo papillare secondaria all’ischemia.

L’angina pectoris è tipicamente scatenata dall’attività fisica, in genere non persiste più di alcuni minuti e regredisce con il riposo. La risposta allo sforzo è di solito prevedibile, ma in certi pazienti un’attività fisica ben tollerata un giorno può scatenare l’attacco anginoso il giorno successivo. L’angina peggiora quando lo sforzo fa seguito a un pasto. Inoltre, i sintomi sono esacerbati dal freddo: una crisi può essere scatenata anche da una passeggiata in una giornata con clima ventoso o dal primo contatto con l’aria fredda all’uscita da un ambiente riscaldato.

L’angina può verificarsi di notte (angina notturna), preceduta da un sogno accompagnato da notevoli modificazioni del respiro, della frequenza cardiaca e della PA. L’angina notturna può anche essere un segno di insufficienza ventricolare sinistra ricorrente, un equivalente della dispnea notturna. Le crisi possono variare da più volte in un giorno a episodi occasionali, con periodi asintomatici di settimane, mesi o anni. Esse possono aumentare di frequenza (angina in crescendo) fino all’esito fatale, o possono gradualmente ridursi o scomparire se si sviluppa un circolo collaterale adeguato, se l’area ischemica va incontro a infarto o se sopravviene scompenso cardiaco o claudicatio intermittens che limitano l’attività fisica del paziente.

L’angina può verificarsi spontaneamente a riposo (angina da decubito), di solito accompagnata da un modesto incremento della frequenza cardiaca e da un aumento della PA che può essere marcato. Se l’angina non si risolve, l’incremento dei valori pressori e l’elevata frequenza cardiaca aumentano il fabbisogno miocardico di O2 e rendono più probabile un IMA.

Poiché le caratteristiche dell’angina per un dato paziente sono solitamente costanti, ogni modificazione dei sintomi (intensità aumentata, soglia ridotta, durata più lunga o comparsa quando il paziente sta seduto o al risveglio) deve essere considerata come un aggravamento della malattia. Tali cambiamenti della sintomatologia vengono descritti con il termine di angina instabile (v. oltre).

Sindrome X: in alcuni pazienti con angina tipica, sensibile al riposo o alla nitroglicerina, il test da sforzo è patologico e si ha produzione miocardica di lattato durante ischemia, mentre la coronarografia è normale. In alcuni pazienti, può essere dimostrata una vasocostrizione riflessa delle coronarie intramiocardiche e la riserva coronarica è ridotta. I dati disponibili suggeriscono una prognosi favorevole, sebbene i sintomi di ischemia possano ricorrere per anni. In molti pazienti, i sintomi migliorano con i b-bloccanti. Questa condizione non deve essere confusa con l’angina variante, dovuta a spasmo delle coronarie epicardiche (v. Angina Variante, più avanti).

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Diagnosi

La diagnosi si basa sul dolore toracico tipico, provocato dallo sforzo e alleviato dal riposo. La diagnosi è confermata se, durante un attacco spontaneo, si rilevano modificazioni ischemiche dell’ECG, reversibili con la regressione della sintomatologia. Possono comparire diverse modificazioni ECG: sottoslivellamento del tratto ST (di solito), sopraslivellamento del tratto ST, riduzione dell’altezza dell’onda R, turbe della conduzione intraventricolare o blocchi di branca tipici e aritmie (solitamente extrasistoli ventricolari). Tra gli attacchi, l’ECG (e di solito la funzione ventricolare) di base è normale in circa il 30% dei pazienti con una storia tipica di angina pectoris, perfino nel caso di una coronaropatia diffusa e di malattia trivasale (un ECG di base anormale, da solo, non permette di stabilire o escludere la diagnosi). Alternativamente, la diagnosi può essere confermata mediante una dose test di nitroglicerina sublinguale, che dovrebbe caratteristicamente far regredire la sintomatologia in 1,5-3 min.

Test ergometrico: dal momento che la diagnosi d’angina si basa primariamente sull’anamnesi, il test ergometrico in un paziente con sintomi tipici viene generalmente utilizzato per determinare la risposta funzionale ed elettrocardiografica a uno sforzo graduale (per il test da sforzo associato a tecniche scintigrafiche, v. Cap. 198; per quanto riguarda il test da sforzo in soggetti asintomatici, al fine di determinare lo stato di salute o il grado di allenamento per programmi di esercizio, v. più avanti).

Il paziente esegue lo sforzo fino al raggiungimento di un obiettivo prestabilito (p. es., 80-90% della frequenza cardiaca massima, che può essere approssimata a 220 meno l’età in anni), a meno che non compaiano sintomi che suggeriscono una disfunzione del sistema cardiovascolare (dispnea, ridotta resistenza, fatica, ipotensione o dolore toracico).

La risposta ischemica all’ECG durante o dopo lo sforzo è caratterizzata da un sottoslivellamento orizzontale o discendente del tratto ST di  0,1 millivolt (1 mm all’ECG se si utilizza la calibrazione standard), che duri  0,08 s. Una depressione del punto J con un tratto ST ascendente è difficile da interpretare: molti dei pazienti che presentano tale quadro non hanno una coronaropatia. L’interpretazione del test da sforzo è ulteriormente complicata dall’aumentata incidenza della malattia coronarica con l’età; prove falsamente positive si hanno in  20% dei pazienti al di sotto dei 40 anni d’età, ma in < 10% dei soggetti al di sopra dei 60 anni. La frequenza di test veri-positivi aumenta con il numero di arterie coronarie ostruite e importanti sottoslivellamenti del tratto ST sono generalmente correlati con coronaropatie più estese.

Il test da sforzo è massimamente predittivo di coronaropatia nei soggetti di sesso maschile con fastidio toracico suggestivo per angina (specificità, 70%, sensibilità, 90%). La prova da sforzo è più difficile da interpretare nelle donne di età inferiore ai 55 anni; un’alta incidenza di falsi-positivi, probabilmente correlata, almeno in parte, alla minore probabilità pre-test della malattia nella popolazione più giovane, ne riduce la specificità. Tuttavia, in presenza di una coronaropatia, è più probabile che una donna abbia un ECG patologico rispetto a un uomo (32% versus 23%). La frequenza di falsi-negativi nella popolazione femminile è paragonabile a quella rilevata nella popolazione maschile: ciò suggerisce che un test negativo indica in maniera affidabile l’assenza della malattia.

In pazienti con sintomi atipici, un test ergometrico negativo permette generalmente di escludere l’angina pectoris e la coronaropatia. Un test positivo può indicare un’ischemia indotta dallo sforzo, ma non spiega i sintomi atipici, rendendo necessarie indagini ulteriori.

I pazienti con angina instabile e quelli con un sospetto IMA recente non devono essere sottoposti alla prova da sforzo. Tuttavia, se le indicazioni sono appropriate e si attua uno stretto monitoraggio, la prova da sforzo in un paziente ischemico comporta un basso rischio. La risposta del paziente fornisce preziose informazioni prognostiche e aiuta a porre indicazione a un esame angiografico o a un possibile intervento di bypass aorto-coronarico nei pazienti in terapia medica massimale. Tutto l’occorrente per la rianimazione cardiorespiratoria, inclusi i farmaci d’emergenza, gli strumenti per il controllo delle vie aeree e un defibrillatore, devono essere immediatamente disponibili per ogni paziente sottoposto a un test da sforzo.

L’angiografia coronarica documenta l’entità delle stenosi delle arterie coronarie (v. anche sotto Cateterismo cardiaco nel Cap. 198). I rilievi dell’angiografia coronarica correlano con i reperti autoptici, anche se l’estensione e la gravità delle lesioni vengono generalmente sottostimate. Con tecniche di alta qualità, possono essere visualizzati vasi fino a 1 mm. La presenza di coronaropatia viene riconosciuta dal rilievo di restringimenti, talora anche a corona di rosario, o dall’obliterazione dei vasi. L’ostruzione è ritenuta funzionalmente significativa quando il diametro del lume è ridotto di > 70%. Tale reperto correla bene con la presenza di angina pectoris; è meno probabile che ostruzioni di grado minore comportino ischemia, a meno che non vi si sovrappongano spasmo o trombosi. La valutazione della cinetica regionale per mezzo dell’angiografia del VS è importante, se non è controindicata per i potenziali effetti collaterali del mezzo di contrasto sulla funzione renale o ventricolare.

L’ecocardiografia (v. anche nel Cap. 198) può essere utilizzata per l’analisi anatomica e funzionale del miocardio. L’anatomia valvolare è ben rappresentata e la pressione dell’arteria polmonare può essere stimata in maniera affidabile. I pazienti con una funzione ventricolare ridotta, conseguenza di una contrattilità depressa, hanno un’aspettativa di vita ridotta. Tuttavia, se la riduzione della funzione ventricolare è dovuta a coronaropatia, questi pazienti traggono grande beneficio dall’intervento di bypass aorto-coronarico, se sopravvivono all’intervento.

La scintigrafia miocardica fornisce informazioni sull’anatomia cardiaca, sulla funzione cardiaca, sulla perfusione e sul metabolismo del miocardio. La ventricolografia radioisotopica permette di misurare i volumi sistolico e diastolico del ventricolo sinistro (e quindi la frazione d’eiezione) e, mediante le metodiche di primo passaggio, la frazione d’eiezione del ventricolo destro. La perfusione miocardica viene visualizzata mediante la tomografia computerizzata a emissione di fotone singolo (Single-Photon Emission Computer Tomography: SPECT) dopo iniezione di tallio-201 e tecnezio-99m-sestamibi. Le immagini che mostrano aree di ridotta captazione dopo esercizio fisico o stimolo farmacologico sono messe a confronto con le immagini realizzate a riposo, per valutare se sia presente un’ischemia distrettuale o un infarto. Le immagini realizzate mediante tomografia a emissione di positroni (Positron Emission Tomography, PET) dimostrano il flusso miocardico distrettuale assoluto o il metabolismo miocardico dopo somministrazione di un tracciante appropriato e dopo stimolazione farmacologica. Il medico deve decidere quale metodica è più adatta nel singolo caso.

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Diagnosi differenziale

Molte malattie causano dolore toracico e devono essere prese in considerazione nella diagnosi differenziale (p. es., alterazioni della colonna cervicale e dorsale, lussazioni costocondrali, dolori toracici aspecifici). Tuttavia, poche patologie simulano realmente l’angina: essa è talmente caratteristica che gli errori diagnostici risultano solitamente da un’inaccurata raccolta dell’anamnesi.

Patologie GI: le difficoltà diagnostiche sorgono quando il pazienta presenta angina atipica, specialmente con sintomi gastrointestinali (p. es., meteorismo; eruttazione, che talvolta può alleviare i sintomi; dispepsia), che sono spesso attribuiti a un’indigestione. L’ulcera peptica, l’ernia iatale e le colecistopatie possono causare sintomi analoghi all’angina pectoris o possono provocare crisi anginose in pazienti con un’anamnesi di preesistente coronaropatia. Delle alterazioni aspecifiche dell’onda T e del tratto ST sono state descritte nell’esofagite, nell’ulcera peptica e nella colecistite e ciò può ulteriormente complicare la diagnosi.

Dispnea: l’angina può essere confusa con la dispnea, in parte a causa dell’aumento improvviso e reversibile della pressione di riempimento del VS che spesso accompagna la crisi anginosa. La descrizione del paziente può essere imprecisa e può essere difficile stabilire se il problema è l’angina, la dispnea o entrambe. Una dispnea ricorrente per sforzi lievi può riflettere un’aumentata pressione di riempimento del VS secondaria a ischemia, con o senza dolore.

Ischemia silente: il monitoraggio Holter delle 24 h ha rivelato un’incidenza sorprendentemente elevata (fino al 70% degli episodi) di anomalie dell’onda T e del tratto ST in assenza di dolore nei pazienti coronaropatici. Tali modificazioni sono rare in persone non affette da cardiopatia ischemica. Studi scintigrafici hanno rilevato ischemia miocardica in alcuni soggetti durante stress psichico (p. es., esercizi aritmetici mentali) e durante modificazioni spontanee dell’ECG. L’ischemia silente e l’angina pectoris possono coesistere nello stesso soggetto. Nell’ischemia silente, la prognosi è determinata dalla gravità della malattia coronarica. La rivascolarizzazione può migliorare la prognosi riducendo l’incidenza di IMA o di morte improvvisa.

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Prognosi

I rischi maggiori sono l’angina instabile, l’IMA, l’IMA ricorrente e la morte improvvisa aritmica. La mortalità annua è dell’1,4% circa in pazienti di sesso maschile con angina e senza pregresso IMA, con un ECG a riposo e una PA normali. La mortalità sale a circa il 7,5% se è presente ipertensione sistolica, all’8,4% quando l’ECG risulta alterato e al 12% se sono presenti entrambi questi fattori di rischio.

Pazienti con lesioni del tronco comune della coronaria sinistra o della discendente anteriore prossimale sono particolarmente a rischio. Sebbene l’evoluzione clinica dipenda dal numero dei vasi interessati, in pazienti stabili la prognosi è sorprendentemente buona anche in caso di malattia trivasale, se la funzione ventricolare è normale.

Una ridotta funzione ventricolare, spesso quantificata mediante la frazione di eiezione, influisce in maniera negativa sulla prognosi, soprattutto nei pazienti con malattia di tre vasi.

La prognosi è anche correlata con i sintomi; è migliore nei pazienti con angina lieve o moderata (Classe I e II) rispetto ai pazienti con grave angina da sforzo (Classe III).

L’età è un fattore di rischio di primo piano negli anziani.

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Terapia

L’obiettivo terapeutico principale consiste nel prevenire o ridurre l’ischemia e nel minimizzare i sintomi. La malattia di base, solitamente l’aterosclerosi, deve essere caratterizzata e i fattori di rischio devono essere ridotti il più possibile (v. Cap. 201). I fumatori dovrebbero smettere di fumare: dopo  2 anni dalla cessazione dell’abitudine del fumo, il rischio di IMA è ridotto agli stessi livelli di chi non ha mai fumato. L’ipertensione va trattata con attenzione, dato che anche una lieve ipertensione aumenta il lavoro cardiaco. Talora, trattando uno scompenso cardiaco di moderata entità, l’angina migliora notevolmente. Paradossalmente, in alcuni casi la digitale aggrava l’angina, presumibilmente perché l’incremento della contrattilità miocardica aumenta la domanda di O2 in presenza di un flusso coronarico fisso. La riduzione aggressiva del colesterolo totale e LDL (con terapia dietetica, associata, se necessario, a farmaci, v. Cap. 15) nei pazienti a rischio ritarda la progressione della malattia coronarica e può provocare la regressione di alcune lesioni. Un programma di esercizio fisico basato soprattutto sul camminare migliora spesso lo stato soggettivo di benessere, riduce il rischio del paziente e migliora la tolleranza allo sforzo.

Tre classi di farmaci sono abitualmente efficaci, singolarmente o in associazione, nell’alleviare i sintomi: i nitrati, i b-bloccanti e i calcioantagonisti.

La nitroglicerina è un potente rilassante della muscolatura liscia e ha un effetto vasodilatatore. La sua sede di azione più importante è il letto vascolare periferico, in particolare i vasi venosi di capacitanza e le coronarie. Anche i vasi gravemente aterosclerotici possono dilatarsi nelle zone prive di ateroma. La nitroglicerina riduce la PA sistolica e dilata le vene sistemiche, riducendo in tal modo la tensione della parete miocardica, una delle maggiori determinanti del fabbisogno miocardico di O2. Globalmente, il farmaco aiuta a bilanciare l’apporto e la domanda di O2 a livello miocardico.

La nitroglicerina sublinguale alla dose di 0,3-0,6 mg è il farmaco più efficace per l’episodio acuto e per la profilassi prima dell’esercizio. Entro 1,5-3 min, si ha in genere una marcata riduzione del dolore, che scompare dopo circa 5 min; l’azione del farmaco persiste sino a 30 min. La dose può essere ripetuta dopo 4-5 min per tre volte, qualora il miglioramento iniziale risulti incompleto. I pazienti devono portare sempre con sé della nitroglicerina in compresse sublinguali o in spray per usarla prontamente all’inizio dell’attacco anginoso. Tale farmaco perde efficacia se non è conservato in bottigliette di vetro a chiusura ermetica e resistenti alla luce; il paziente deve rifornirsi di piccole quantità a intervalli frequenti.

I nitrati ad azione prolungata sono disponibili in preparazioni orali o transcutanee. Essi migliorano la tolleranza all’esercizio per diverse ore nel paziente anginoso.

L’isosorbide dinitrato alla dose di 10-20 mg PO qid è efficace entro 1-2 h dall’assunzione e il suo effetto persiste per 4-6 h. La dose iniziale può essere aumentata, a seconda della risposta, sino a 40 mg qid. Sono disponibili anche preparazioni a rilascio prolungato.

L’isosorbide mononitrato, il metabolita attivo del dinitrato, viene somministrato alla dose di 20 mg PO bid, con un intervallo di 7 h fra la prima e la seconda dose. Compresse a lento rilascio (30 o 60 mg/die, aumentabili fino a 120 mg/die o, raramente, 240 mg/die se necessario) sembrano essere efficaci per tutto il giorno senza evidenza di tolleranza.

L’unguento di nitroglicerina garantisce un buon assorbimento transcutaneo, soprattutto in ambiente umido. In commercio sotto forma di una preparazione al 2% (15 mg/2,5 cm), 1,25 cm di unguento vengono applicati sulla cute della parte superiore del dorso o sulle braccia ogni 6-8 h e ricoperti con della plastica. La dose può essere incrementata sino a 7,5 cm se tollerata. L’unguento va rimosso per diverse ore ogni giorno per impedire che si verifichi tolleranza (v. oltre) a causa dell’assorbimento continuo.

I cerotti di nitroglicerina per applicazione cutanea garantiscono un effetto terapeutico prolungato, grazie alla lenta liberazione del farmaco. La risposta è correlata alle dimensioni del cerotto e alla concentrazione del farmaco; la capacità d’esercizio migliora circa 4 h dopo l’applicazione del cerotto, ma la maggior parte degli studi non evidenzia una persistenza dell’effetto dopo 18-24 h. Il cerotto va rimosso dopo 14-18 ore perché può svilupparsi tolleranza (v. più avanti).

Può verificarsi tolleranza ai nitrati, di solito entro 24 h, quando le concentrazioni plasmatiche sono costanti. La tolleranza sembra in parte dovuta alla deplezione di gruppi sulfidrilici della muscolatura liscia, che provoca una ridotta attivazione del GMP ciclico. A causa delle variazioni circadiane del rischio di IMA (incidenza più alta nelle prime ore del mattino), è ragionevole prevedere un periodo di wash out dai nitrati nel pomeriggio o in prima serata, se le circostanze cliniche lo consentono. Per la nitroglicerina, 8 h sembrano sufficienti. L’isosorbide può richiedere un periodo di wash out di 12 h.

I b-bloccanti interrompono la stimolazione simpatica sul cuore e riducono la pressione sistolica, la frequenza cardiaca, la contrattilità e la gittata cardiaca, riducendo pertanto le richieste miocardiche di O2 e aumentando la tolleranza allo sforzo. Inoltre, essi aumentano la soglia per la fibrillazione ventricolare. Poiché le richieste tissutali di O2 vengono soddisfatte da una maggiore estrazione di O2 dal sangue capillare, la differenza arterovenosa di O2 è aumentata. Questi farmaci sono estremamente utili nel ridurre i sintomi e sono ben tollerati dalla maggior parte dei pazienti.

I calcioantagonisti rappresentano l’importante terzo braccio nel trattamento dell’angina pectoris e delle coronaropatie. Questi vasodilatatori sono utili nel trattamento dell’angina associata a ipertensione e risolvono lo spasmo coronarico, se presente. Essi risultano spesso efficacissimi nell’angina variante (v. più avanti), ma la loro efficacia può essere limitata dal loro effetto cronotropo e inotropo negativo (diltiazem, verapamil).

Gli antiaggreganti piastrinici sono importanti perché si oppongono all’aggregazione delle piastrine, che ha un ruolo fondamentale nella genesi dell’IMA e dell’angina instabile. In studi epidemiologici, è stato dimostrato che l’aspirina, che si lega alle piastrine in maniera irreversibile e inibisce la ciclo-ossigenasi e l’aggregazione piastrinica in vitro, riduce l’incidenza di eventi coronarici (IMA, morte improvvisa) nei pazienti coronaropatici. Per questo, da più parti si raccomanda la somministrazione di aspirina alla dose di 80-325 mg/die come profilassi in questi pazienti. Per i pazienti che non possono assumere aspirina, sono disponibili la ticlopidina (250 mg bid) e il clopidogrel (75 mg/die). Questi farmaci contrastano l’aggregazione piastrinica indotta dall’adenosina difosfato. La ticlopidina sembra essere più efficace dell’aspirina nei pazienti ad alto rischio per attacchi ischemici transitori, ictus, cardiopatia ischemica e vasculopatia periferica, ma comporta il rischio della soppressione del midollo osseo.

L’angioplastica comporta l’inserzione di un catetere dotato di un palloncino a un’estremità all’interno di un’arteria, in corrispondenza di una lesione aterosclerotica parzialmente occlusiva. Quando il palloncino viene gonfiato, si possono provocare lacerazioni dell’intima e della media, con una notevole dilatazione dell’ostruzione. Circa il 20-30% delle ostruzioni recidiva in alcuni giorni o settimane, ma la maggior parte può essere sottoposta con successo a una nuova dilatazione. L’uso degli stent riduce in maniera significativa il tasso di riocclusione, che continua a diminuire con l’applicazione di tecniche ancora più nuove. L’angiografia ripetuta a 1 anno di distanza dimostra un lume apparentemente normale in circa il 30% dei vasi sottoposti a tale trattamento. L’angioplastica rappresenta un’alternativa all’intervento di bypass, nel caso in cui le lesioni siano anatomicamente suscettibili a tale tipo di terapia. Il rischio è paragonabile a quello della chirurgia: la mortalità è dell’1-3%; l’incidenza di IMA è del 3-5%; un bypass d’emergenza per dissezione intimale con occlusione del vaso è necessario in < 3% dei casi; la percentuale di successo iniziale è pari all’85-93% in mani esperte. I risultati continuano a migliorare con i progressi che si vanno compiendo nella metodica, nella progettazione dei cateteri e dei dispositivi di dilatazione e nella terapia farmacologica per mantenere la pervietà dopo la procedura.

L’intervento di bypass aorto-coronarico costituisce un approccio terapeutico molto efficace in pazienti selezionati con angina. Il candidato ideale per tale intervento ha una grave angina pectoris, dimensioni cardiache normali, nessuna storia di IMA, malattia localizzata e pertanto aggredibile mediante bypass, buona funzione ventricolare e nessun fattore di rischio aggiuntivo. In questo tipo di paziente, la chirurgia elettiva comporta un rischio di IMA perioperatorio < 5% e una mortalità  1%. L’85% circa di tali pazienti sperimenta la scomparsa o la notevole riduzione dei sintomi. Ad 1 anno, circa l’85% dei bypass risulta pervio. Il test da sforzo mostra una correlazione positiva tra la pervietà del graft e la migliorata tolleranza allo sforzo, sebbene alcuni pazienti mostrino un significativo miglioramento nonostante la chiusura del bypass. Il rischio operatorio è più alto nei pazienti con funzione ventricolare sinistra compromessa o con associata valvulopatia mitralica o aortica. La mortalità operatoria per un secondo intervento di bypass è di tre-cinque volte più alta che per il primo; è dunque importante scegliere il momento giusto per eseguire il primo bypass.

La coronaropatia può progredire nonostante l’intervento di bypass. Nel postoperatorio, il rischio di occlusione prossimale del vaso sede di bypass aumenta. L’ostruzione di un graft venoso progredisce attraverso due fasi: dapprima si verifica una trombosi e, successivamente (diversi anni), una lenta degenerazione aterosclerotica della media e dell’intima. L’aspirina prolunga il periodo in cui i graft venosi si mantengono pervi. Il tasso di pervietà dei bypass realizzati con innesto dell’arteria mammaria interna è molto maggiore rispetto a quello dei graft venosi; dopo 10 anni, fino al 97% di tali condotti è funzionante e l’arteria si ipertrofizza per far fronte all’aumento del flusso ematico.

La sopravvivenza dopo intervento di bypass è maggiore nei pazienti portatori di stenosi del tronco comune, in quelli con malattia di tre vasi e ridotta funzione del VS e in alcuni pazienti con malattia di due vasi. Tuttavia, nei pazienti con angina lieve o moderata (Classe I o II), malattia di tre vasi e buona funzione ventricolare, la sopravvivenza sembra solo marginalmente migliorata dalla chirurgia. Nei pazienti con malattia di un vaso, la prognosi è simile con terapia medica, angioplastica o intervento di bypass, eccetto che nel caso di malattia del tronco comune o della discendente anteriore prossimale, quando la rivascolarizzazione chirurgica appare vantaggiosa.

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ANGINA INSTABILE

(Insufficienza coronarica acuta; angina pre-infartuale; angina in crescendo; sindrome intermedia)

Sindrome caratterizzata da un progressivo intensificarsi dei sintomi anginosi o dalla nuova comparsa di angina a riposo o notturna o dalla comparsa di episodi anginosi di durata protratta.

L’angina instabile è provocata da un improvviso aumento del grado di ostruzione al flusso, dovuto alla rottura della placca fibrosa che ricopre un ateroma con conseguente adesione delle piastrine. Nell’angina instabile,  1/3 dei pazienti studiati angiograficamente presenta trombi parzialmente occludenti nel vaso che serve l’area ischemica. Tale percentuale è probabilmente sottostimata, a causa della difficoltà a individuare un trombo mediante angiografia.

Rispetto all’angina stabile, il dolore dell’angina instabile è generalmente più intenso, dura più a lungo, insorge per sforzi lievi o si verifica spontaneamente a riposo (angina da decubito), è progressivo (crescendo) o è caratterizzato dalla combinazione di diversi fra questi aspetti.

Circa il 30% dei pazienti con angina instabile andrà probabilmente incontro a un IMA entro 3 mesi dall’esordio; la morte improvvisa è meno comune. La presenza di significative modificazioni ECG durante dolore indica un aumentato rischio di IMA o di morte improvvisa.

L’angina instabile è un’emergenza medica da trattare in unità coronarica (UTIC). Sia l’eparina che l’aspirina riducono l’incidenza di IMA. Per ridurre la coagulazione intracoronarica, si deve iniziare immediatamente terapia con aspirina PO (325 mg/die) ed eparina EV. Se l’aspirina non è tollerata o è controindicata, 250 mg bid di ticlopidina o 75 mg/die di clopidogrel sono una possibile alternativa. La ticlopidina rende necessario il monitoraggio dell’emocromo a intervalli regolari, per il rischio di neutropenia.

Bisogna ridurre il lavoro cardiaco rallentando la frequenza cardiaca e abbassando la PA con b-bloccanti e nitroglicerina EV, ristabilendo così l’equilibrio tra richieste di O2 e flusso ematico coronarico. Patologie favorenti (p. es., ipertensione, anemia) devono essere trattate in maniera intensiva. Risultano utili il riposo a letto, O2 per via nasale e nitrati. I calcioantagonisti possono essere utili nei pazienti con ipertensione e probabile spasmo coronarico. I trombolitici non sono utili e possono essere pericolosi. In un trial randomizzato su pazienti con angina instabile refrattaria, è stato dimostrato che l’uso dell’antagonista del recettore piastrinico glicoproteina IIb/IIIa abciximab (frammento Fab di un anticorpo monoclonale) migliora la prognosi. È stato dimostrato che il tirofiban previene gli eventi ischemici cardiaci nell’angina instabile e nell’infarto non-Q. Altri antagonisti del recettore IIb/IIIa sono in corso di valutazione nelle sindromi ischemiche acute.

I sintomi del paziente devono essere tenuti sotto controllo per alcune ore con un trattamento intensivo. Se dopo 24-48 h la terapia non è efficace, può essere necessario un trattamento più aggressivo. La contropulsazione aortica riduce il postcarico sistolico e aumenta la pressione diastolica, che è la principale forza che determina la perfusione coronarica. Questa tecnica spesso riduce il dolore anginoso continuo e può essere usata per sostenere la circolazione durante un cateterismo cardiaco diagnostico in vista della rivascolarizzazione mediante bypass aorto-coronarico o angioplastica. L’angiografia può essere indicata nel paziente che risponde poco alla terapia medica, al fine di identificare la lesione colpevole e valutare l’estensione della malattia coronarica e la funzione del VS; tutte queste informazioni permettono di porre indicazione all’angioplastica transluminale o all’intervento di bypass aorto-coronarico, se tecnicamente realizzabili.

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ANGINA VARIANTE

(Angina di Prinzmetal)

Angina pectoris solitamente secondaria a spasmo delle coronarie epicardiche, caratterizzata da dolore a riposo e sopraslivellamento del tratto ST durante gli attacchi.

La maggior parte dei pazienti ha una stenosi fissa prossimale significativa di almeno un’arteria coronarica principale. Lo spasmo solitamente si verifica entro 1 cm dalla stenosi ed è spesso accompagnato da aritmie ventricolari. Al di fuori degli attacchi anginosi (che tendono a verificarsi con regolarità a una certa ora del giorno) l’ECG può essere normale o patologico, ma è comunque stabile nel tempo. L’ergonovina EV è stata utilizzata come test provocativo per indurre lo spasmo, ma tale prova va eseguita solo da personale specializzato in laboratorio di emodinamica. Nonostante la sopravvivenza media a 5 anni sia fra l’89 e il 97%, i pazienti con angina variante e una stenosi coronarica grave costituiscono una categoria a rischio aumentato. La nitroglicerina sublinguale risolve immediatamente il dolore dell’angina variante. I calcioantagonisti sembrano essere molto efficaci.

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