18. GINECOLOGIA E OSTETRICIA

242. MALATTIE DELLA MAMMELLA

CANCRO DELLA MAMMELLA

(V. anche Cap. 142, 143 e 144.)

Sommario:

Introduzione
Fattori di rischio
Sintomi, segni e diagnosi
Screening
Terapia primaria
Terapia adiuvante sistemica
Terapia della malattia metastatica
CANCRO DELLA MAMMELLA NELL’UOMO

Il carcinoma in situ è localizzato interamente all’interno del dotto mammario, senza invasione dei normali tessuti adiacenti. Una volta eccezionale, rappresenta ora più del 15% di tutti i casi di carcinoma mammario diagnosticati negli USA e la percentuale è ancora più alta nei gruppi di donne più giovani. Questo incremento è il risultato di uno screening migliore.

Il carcinoma duttale in situ (CDIS) è responsabile del 43% dei cancri della mammella diagnosticati nelle donne di età compresa tra i 40 e i 49 anni e del 92% dei casi diagnosticati nelle donne di età compresa tra i 30 e i 39 anni. Il CDIS si sviluppa nelle donne in pre-menopausa e in quelle in post-menopausa, dà luogo a una massa palpabile ed è più frequentemente localizzato in un quadrante della mammella. Inoltre, è frequentemente la causa delle microcalcificazioni evidenziate alla mammografia. Le pazienti hanno buone probabilità di sviluppare un cancro invasivo se non vengono trattate. Il CDIS è considerato un precursore del cancro invasivo ma, poiché è localizzato, può essere completamente rimosso con l’intervento chirurgico.

Il carcinoma lobulare in situ (CLIS), o neoplasia lobulare, si verifica preferenzialmente nelle donne in pre-menopausa e viene di solito riscontrato incidentalmente, poiché non dà vita a masse palpabili. Dal punto di vista microscopico, il CLIS sembra chiaramente diverso dal CDIS. Il 25-35% delle pazienti con un CLIS sviluppa un cancro mammario invasivo dopo una latenza che può essere anche di 40 anni. Questi tumori invasivi si sviluppano bilateralmente con uguale frequenza. Molti specialisti collegano il CLIS all’iperplasia atipica, considerandola un indice di predisposizione al cancro della mammella piuttosto che un vero precursore.

I tumori invasivi lobulari e duttali sono i tipi istologici più frequenti tra i tumori invasivi (circa il 90%). Le pazienti con istotipi meno comuni (p. es., le lesioni tubulari o midollari) hanno una prognosi relativamente migliore.

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Fattori di rischio

Negli USA, il rischio cumulativo di sviluppare un carcinoma mammario è del 12,64% (1 su 8) all’età di 95 anni e quello di morire per questa patologia è di circa il 3,6%. Il rischio maggiore si verifica dopo i 75 anni di età (v. Tab. 242-1). Queste statistiche possono essere ingannevoli, perché il rischio cumulativo di sviluppare la malattia in un qualsiasi intervallo di 20 anni è considerevolmente più basso.

La storia familiare di carcinoma della mammella in un parente di primo grado (genitori, germani, figli) raddoppia o triplica il rischio di sviluppare la malattia, ma la familiarità in parenti più lontani aumenta il rischio solo di poco. In alcuni studi, il rischio è risultato più alto nelle donne con parenti affetti da un cancro bilaterale della mammella o il cui cancro sia stato diagnosticato prima della menopausa. Quando due o più parenti di primo grado hanno un tumore della mammella, il rischio può essere maggiore di 5 o 6 volte. Circa il 5% delle donne affette da un cancro della mammella è portatore di uno dei due geni del cancro della mammella, BRCA1 o BRCA2. Il rischio di sviluppare un cancro della mammella aumenta se anche una parente di queste donne è portatrice del gene. Anche gli uomini portatori del BRCA2 hanno un aumentato rischio di sviluppare una neoplasia della mammella. La quantificazione del rischio è ancora incerta, ma può essere addirittura del 50-85% all’età di 80 anni. Tuttavia, le donne con BRCA1 o BRCA2 non sembrano avere un maggior rischio di morire per un cancro della mammella dopo la sua diagnosi rispetto alle donne senza questo gene. Le donne che hanno il BRCA1 hanno un rischio similmente aumentato di sviluppare un cancro dell’ovaio. Le donne che non hanno una storia familiare di cancro della mammella nei parenti di primo grado di almeno due generazioni, probabilmente non sono portatrici di questo gene. Per questa ragione, la maggior parte delle organizzazioni professionali non incoraggia lo screening diffuso per il BRCA1 e per il BRCA2.

Le donne con una storia di cancro della mammella in situ o invasivo sono un altro gruppo ad alto rischio. Il rischio di sviluppare un cancro nella mammella controlaterale dopo una mastectomia è di circa lo 0,5-1% all’anno.

Il rischio è aumentato anche per le donne con un menarca precoce, una menopausa tardiva o una prima gravidanza tardiva. Le donne che hanno avuto la prima gravidanza dopo i 30 anni sono a maggior rischio rispetto alle donne nullipare.

Un’anamnesi positiva per la mastopatia fibrocistica aumenta il rischio, ma questa condizione è una diagnosi istologica imprecisa spesso assegnata a una biopsia della mammella che mostra alcune cisti con tessuto mammario normale o con una minima proliferazione; quindi, la diagnosi ha poco significato. Tra le donne con una pregressa biopsia per una patologia mammaria benigna, l’aumento di rischio sembra limitato a quelle con una proliferazione duttale e, anche in queste, il rischio è moderato, fatta eccezione per le donne con un’iperplasia atipica. Per quelle con un’iperplasia atipica e un’anamnesi familiare positiva in un parente di primo grado, infatti, il rischio è aumentato di quasi 9 volte. Le donne con noduli mammari multipli, ma senza una conferma istologica di un quadro ad alto rischio, non devono essere considerate a rischio aumentato.

Le donne che usano i contraccettivi orali hanno un modesto aumento del rischio di insorgenza di un cancro della mammella; tra queste donne si verificano, infatti, circa 5 casi in più di cancro della mammella ogni 100000. Il rischio aumenta principalmente durante gli anni in cui le donne assumono i contraccettivi e diminuisce progressivamente nei 10 anni successivi alla loro sospensione. Il rischio è anche correlato all’età in cui i contraccettivi sono stati assunti per la prima volta. Le donne che iniziano ad assumere i contraccettivi prima dei 20 anni hanno il maggiore incremento proporzionale del rischio di insorgenza del cancro che, comunque, è ancora molto basso.

Similmente, l’uso della terapia estrogenica sostitutiva nella post-menopausa sembra aumentare in misura modesta il rischio dopo 10-20 anni di assunzione (v. anche Cap. 236). Nonostante l’uso prolungato, anche in questo caso il rischio è aumentato, comunque, meno di due volte. Non è noto se l’uso ciclico o continuo degli estro-progestinici abbia degli effetti maggiori o minori sul rischio, rispetto all’uso dei soli estrogeni. I modulatori selettivi dei recettori estrogenici possono prevenire la cardiopatia e l’osteoporosi e trattare le vampate senza effetti dannosi sulla mammella.

I fattori ambientali, come la dieta, possono avere un ruolo nel causare o promuovere la crescita di un cancro della mammella, ma mancano prove definitive sull’effetto di diete particolari (p. es., di una ricca di grassi). Le donne obese in post-menopausa hanno un rischio aumentato, ma non c’è alcuna prova che il cambiamento della dieta riduca il rischio. Per le donne obese che hanno ancora le mestruazioni, il rischio può essere diminuito.

L’esposizione alle radiazioni, prima dei 30 anni, aumenta, invece, il rischio.

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Sintomi, segni e diagnosi

Più dell’80% dei carcinomi della mammella viene scoperto dalla paziente stessa per la presenza di un nodulo. Meno comunemente, le pazienti si presentano con una storia di dolore in assenza di masse, con un aumento di volume o con un indefinito aumento di consistenza del seno. Un reperto tipico all’esame obiettivo è la presenza di una massa dominante, un nodulo chiaramente distinto dal tessuto mammario circostante. Alterazioni fibrotiche diffuse in un quadrante del seno, di solito il quadrante supero-esterno, sono più caratteristiche di affezioni benigne, ma un ispessimento lievemente più fisso, non notato nel seno controlaterale, può essere un segno di cancro. Cancri della mammella più avanzati sono caratterizzati dalla fissità della massa alla parete toracica o alla cute sovrastante, dalla presenza di una linfoadenopatia satellite o di ulcerazioni della cute o dall’accentuazione dei segni cutanei causati dal linfedema (cute a buccia d’arancia). Se sono presenti dei linfonodi ascellari confluenti o fissi e/o una linfoadenopatia sotto- o sopraclaveare, l’intervento chirurgico ha poche probabilità di essere radicale. Il carcinoma mammario infiammatorio è particolarmente virulento, caratterizzato da un’infiammazione e un aumento di volume del seno diffusi, spesso senza un massa definita.

Se all’esame obiettivo c’è il sospetto di un cancro, si deve programmare una biopsia. Una mammografia effettuata prima della biopsia può aiutare a evidenziare altre aree del seno che devono essere bioptizzate e serve come esame di confronto per i controlli successivi. Tuttavia, il risultato della mammografia non deve modificare la decisione di eseguire la biopsia.

L’agoaspirato con esame citologico può essere sufficiente per confermare il cancro, ma deve essere eseguito solo da persone di elevata esperienza nella tecnica. Se l’aspirato di una lesione sospetta è negativo, deve essere effettuato un esame più sensibile: un’agobiopsia o una biopsia a cielo aperto oppure una biopsia escissionale se il tumore è piccolo. Sempre più frequentemente, si ricorre alle biopsie stereotassiche (un’agobiopsia eseguita durante la mammografia) per migliorare l’accuratezza diagnostica. Le prove indicano che questo metodo è accurato e sicuro almeno quanto i metodi bioptici tradizionali. La maggior parte delle biopsie può essere eseguita utilizzando un anestetico locale. Il campione bioptico può essere posto in inchiostro di china prima della sezione così da evidenziare con maggior precisione i margini del tessuto normale che circonda la lesione.

Una parte del campione bioptico deve essere esaminata, di routine, per la presenza dei recettori per gli estrogeni e per il progesterone. Queste proteine citoplasmatiche possono essere misurate mediante il dosaggio delle proteine leganti gli steroidi, che richiede circa 1 g di tessuto tumorale fresco polverizzato per formare un omogenato di cellule tumorali, o con un test immunochimico (Estrogen Receptor Immunochemical Assay, ER-ICA), che richiede quantitativi più piccoli di tessuto fresco. Un ER-ICA eseguito su sezioni di tessuto fissato è meno attendibile. Circa i 2/3 delle pazienti hanno un tumore positivo per i recettori degli estrogeni (RE+) con un’incidenza maggiore tra le donne in post-menopausa rispetto a quelle in pre-menopausa. Le pazienti con i recettori degli estrogeni hanno una prognosi in un certo qual modo migliore e una maggiore probabilità di trarre beneficio dalla terapia endocrina. Un recettore per il progesterone si pensa che si comporti dal punto di vista funzionale come un recettore per gli estrogeni. La presenza di recettori per gli estrogeni e per i progestinici indica una maggior probabilità di risposta rispetto alla presenza dei recettori per i soli estrogeni. La conoscenza dello stato recettoriale al momento della diagnosi può essere utile nella scelta della terapia adiuvante (dopo escissione o terapia radiante) e della terapia palliativa se si sviluppa una malattia metastatica.

Il campione bioptico può essere valutato per la ploidia e la frazione di cellule in fase S. Le pazienti che hanno dei tumori aneuploidi o dei tumori con un’alta percentuale di cellule in fase S hanno una prognosi peggiore. Questi test sono eseguiti in molti laboratori commerciali, ma non sono stati stabiliti dei valori standard per identificare una cattiva prognosi, né sono stati istituiti programmi di controllo della qualità per assicurare la comparabilità dei risultati. Infine, questi test possono aiutare a determinare la prognosi nelle pazienti che non hanno un coinvolgimento dei linfonodi ascellari.

Il trattamento può essere ritardato da una a diverse settimane dopo la biopsia in modo da poter eseguire una valutazione completa dell’eventuale malattia metastatica. Questa deve comprendere almeno l’esame obiettivo per accertare la presenza di una linfoadenopatia, di metastasi cutanee e di un’epatomegalia; una radiografia del torace; lo studio della funzione epatica e un emocromo. L’antigene carcinoembrionario (CEA) e l’antigene tumorale 15-3 sono elevati in più del 50% delle pazienti con malattia metastatica. Una scintigrafia ossea deve essere effettuata di routine in tutti le pazienti con tumori di grandi dimensioni o con linfoadenopatia. La scintigrafia ossea è, infatti, raramente positiva nelle pazienti senza linfoadenopatia e con tumori di diametro inferiore ai 2 cm. Comunque, questo esame fornisce un valido termine di confronto se si sviluppano i segni della malattia metastatica (p. es., il dolore muscolo-scheletrico). La scintigrafia epatica è raramente positiva nelle pazienti con esami di funzionalità epatica normali, un normale CEA e assenza di epatomegalia all’esame obiettivo.

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Screening

L’esame obiettivo delle mammelle effettuato dalla paziente o dal medico, comincia con l’ispezione, per la ricerca di asimmetrie nelle dimensioni delle mammelle, di inversioni, protrusioni o retrazioni del capezzolo. La Fig. 242-1 A e B mostra la posizione usuale per l’ispezione. Un tumore sottostante viene, a volte, messo in evidenza facendo premere alla paziente entrambe le mani contro i fianchi o le palme l’una contro l’altra davanti alla fronte (v. Fig. 242-1 C e D). In queste posizioni i muscoli pettorali sono contratti e può apparire una piccola retrazione della cute se il tumore, crescendo, è rimasto intrappolato in un legamento di Cooper. I linfonodi ascellari e sopraclaveari sono esaminati meglio con la paziente seduta o in piedi (v. Fig. 242-1 E). Offrendo un supporto al braccio della paziente durante l’esame dell’ascella, il braccio è completamente rilasciato e si possono palpare i linfonodi ascellari profondi. Sebbene l’esame delle mammelle con la paziente seduta possa evidenziare una lesione non palpabile in altro modo, un esame più sistematico deve essere effettuato a paziente supina con il braccio dello stesso lato sollevato sopra la testa e un cuscino sotto la spalla omolaterale al seno da esaminare (v. Fig. 242-1 F). Questa posizione viene usata anche per l’autoesame del seno; la paziente esamina la mammella con la sua mano controlaterale.

Il seno deve essere palpato con la superficie palmare del secondo, terzo e quarto dito, spostandosi sistematicamente con piccoli movimenti circolari dal capezzolo verso i margini esterni (v. Fig.242-1 G). Le dimensioni (misurate con un calibro) e la localizzazione esatte di ogni reperto anomalo devono essere annotate su uno schema del seno che deve diventare parte della documentazione della paziente. Deve essere inclusa anche la descrizione, per iscritto, della consistenza dell’anomalia riscontrata e del grado di delimitazione rispetto al tessuto mammario circostante. La scheda deve indicare se l’alterazione è stata considerata un reperto benigno o potenzialmente maligno, poiché la presenza di reperti anormali all’esame obiettivo è il criterio più importante per decidere se effettuare o no una biopsia, anche se una mammografia successiva non evidenzia l’area sospetta.

La paziente deve essere istruita sull’autopalpazione del seno durante il controllo senologico annuale da parte di un medico o di un’infermiera specializzata. La paziente deve eseguire questo esame ogni mese. L’auto-esame eseguito di routine non ha dimostrato di poter ridurre la mortalità del cancro della mammella né di essere utile quanto lo screening mammografico; tuttavia, i tumori riscontrati con questa tecnica sono solitamente più piccoli, sono associati a una prognosi migliore e vengono più facilmente trattati con un intervento chirurgico conservativo (v. oltre).

La mammografia sistematica riduce la mortalità per cancro della mammella del 25-35% nelle donne asintomatiche  50 anni di età e, probabilmente, in minor misura in donne asintomatiche con < 50 anni. In studi di screening, circa il 40% dei tumori è stato scoperto con la mammografia e non con l’esame fisico. La mammografia, nelle donne > 50 anni, deve essere eseguita ogni anno. Tuttavia, c’è un notevole disaccordo circa l’opportunità dello screening nelle donne di età compresa tra i 40 e i 50 anni. Le raccomandazioni per questo gruppo di età includono la mammografia annuale (The American Cancer Society), la mammografia ogni 1-2 anni (The National Cancer Institute) e nessuna mammografia periodica (The American College of Physicians, che considera incerti i benefici della mammografia per questo gruppo di età).

I segni iniziali di un cancro della mammella, identificati dalla mammografia, includono le microcalcificazioni, le sottili distorsioni dell’architettura della mammella e le lesioni a forma di granchio che non possono essere palpate. Tuttavia, queste alterazioni non sono sempre osservate nelle pazienti che presentano una massa o altri segni suggestivi e l’incidenza di risultati falsamente negativi può superare il 15%, in funzione, in parte della tecnica usata e in parte dell’esperienza del mammografista. Le aree sospette alla mammografia che non possono essere evidenziate all’esame obiettivo possono essere localizzate posizionando 2 aghi o fili metallici sotto guida radioscopica, rendendo così possibile la biopsia della lesione. I campioni bioptici devono essere radiografati e la radiografia confrontata con la mammografia eseguita prima della biopsia per accertarsi che l’area sospetta sia stata rimossa. La mammografia è ripetuta quando il seno non è più dolorabile, solitamente 6-12 sett. dopo la biopsia, per confermare la rimozione dell’area sospetta.

L’ecografia è utile per distinguere una cisti della mammella da una massa solida. Una cisti, di solito, non richiede alcun trattamento se la paziente è asintomatica (anche se alcuni medici credono che tutte le cisti debbano essere aspirate e il liquido debba essere inviato per l’esame citologico), mentre una massa solida, di solito, deve essere sottoposta a biopsia. L’ecografia non è usata nello screening di routine per il cancro. Anche la termografia e la diafanografia (transilluminazione), che hanno un’incidenza di risultati falsi positivi e falsi negativi molto alta, non sono considerati utili nello screening.

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Terapia primaria

Cancro invasivo: le percentuali di sopravvivenza delle pazienti trattate con una mastectomia radicale modificata (mastectomia semplice più dissezione linfonodale) e di quelle trattate con chirurgia conservativa (tumorectomia, escissione allargata, mastectomia parziale o quadrantectomia) più radioterapia sembrano essere identiche, almeno per i primi 20 anni. Le preferenze delle pazienti giocano un ruolo principale nella scelta del trattamento. Il vantaggio principale della chirurgia conservativa associata alla radioterapia è di natura estetica con il conseguente senso di integrità corporea. Tuttavia, questo vantaggio può venire a mancare se il tumore è grande rispetto alla mammella, dal momento che è necessaria la completa rimozione della massa tumorale e di una porzione di tessuto normale limitrofo per il controllo a lungo termine del cancro mammario. Alcuni medici utilizzano la chemioterapia preoperatoria per ridurre le dimensioni del tumore prima di eseguire la tumorectomia e la radioterapia. I primi dati indicano che questo approccio non compromette la sopravvivenza e può permettere ad alcune donne di scegliere l’intervento conservativo invece della mastectomia.

In circa il 15% delle pazienti trattate con chirurgia conservativa e radioterapia può essere difficile distinguere quale seno sia stato operato. Più spesso, comunque, si verifica una qualche retrazione nella mammella trattata ed eventualmente si possono verificare degli ispessimenti o interruzioni del contorno nell’area della escissione allargata. Queste alterazioni possono essere ridotte al minimo facendo attenzione ai dettagli estetici durante la biopsia iniziale e durante l’escissione, eventualmente necessaria. Gli altri effetti negativi della radioterapia sono generalmente transitori e lievi; includono l’eritema e la formazione di vescicole cutanee durante la terapia, le lievi polmoniti, 3-6 mesi dopo la fine della radioterapia, in circa il 10-20% delle pazienti e le fratture costali asintomatiche in meno del 5% delle pazienti.

La maggior parte dei tumori invasivi presenta una o più piccole aree di cancro intraduttale (in situ); alcuni studi hanno dimostrato che i tumori caratterizzati da un’estesa (> 25%) componente intraduttale (CID+), sia nel contesto del tumore invasivo che nel tessuto circostante, hanno un elevata percentuale di recidive locali dopo chirurgia conservativa e radioterapia. Tuttavia, le percentuali di metastasi a distanza e le percentuali di sopravvivenza dopo chirurgia conservativa della mammella sono le stesse nei tumori CID+ o CID-. Il miglior controllo locale dei tumori CID+ è, comunque, ottenuto con la mastectomia o con una nuova escissione dell’area tumorale originaria, in modo da escludere ulteriori focolai di tumore rimasto in sede.

Con la mastectomia radicale modificata si asporta tutto il tessuto mammario, ma si preserva il muscolo grande pettorale e si evita la necessità di un innesto cutaneo; questo intervento ha sostituito la mastectomia radicale secondo Halsted. La sopravvivenza dopo mastectomia radicale modificata è equivalente a quella che si ha dopo una mastectomia radicale, ma la ricostruzione del seno è considerevolmente più facile. La radioterapia eseguita come terapia adiuvante dopo una mastectomia, riduce significativamente l’incidenza delle recidive locali sulla parete toracica e nei linfonodi regionali, ma non migliora la sopravvivenza globale e viene, quindi, usata sempre meno frequentemente.

Le procedure per le ricostruzione includono il posizionamento di una protesi salina o in silicone, al di sotto del piano muscolare o, meno frequentemente nel sottocute; l’uso di un espansore tissutale con il successivo posizionamento della protesi; il trasferimento del muscolo e della vascolarizzazione dal muscolo grande dorsale o dalla parte inferiore del muscolo retto dell’addome nonché la creazione di un lembo libero anastomizzando i vasi del muscolo grande gluteo ai vasi mammari interni. La scelta della procedura dipende dall’estensione del precedente intervento chirurgico o della radioterapia, dall’esperienza del chirurgo plastico e dalla determinazione della paziente nell’andare incontro a procedure chirurgiche più impegnative o ad avere una debolezza muscolare nelle aree da cui sono rimossi i muscoli. La ricostruzione subito dopo la mastectomia comporta un’anestesia prolungata e la coordinazione tra il chirurgo generale e il chirurgo plastico.

La dissezione o la biopsia dei linfonodi può essere eseguita come parte della mastectomia radicale modificata o con un’incisione ascellare distinta durante l’intervento conservativo. Alla procedura è associata una morbilità considerevolmente inferiore se la dissezione linfonodale viene limitata medialmente e inferiormente ai vasi succlavi. Interventi più estesi probabilmente non sono giustificati, perché il ruolo principale della rimozione dei linfonodi è diagnostico e non terapeutico.

Lo stato dei linfonodi si correla con la sopravvivenza libera da malattia e con la sopravvivenza globale meglio di qualunque altro fattore prognostico. Nelle pazienti con linfonodi negativi la percentuale di sopravvivenza senza malattia a 10 anni supera il 70% e la sopravvivenza globale supera l’80%. Al contrario, le percentuali sono rispettivamente del 25% e del 40% nelle pazienti con linfonodi positivi. La prognosi è peggiore per ogni linfonodo positivo in più, ma tradizionalmente vengono considerati 3 gruppi: linfonodi negativi, 1-3 linfonodi positivi e 4 o più linfonodi positivi. Per le pazienti dell’ultimo gruppo, la percentuale di sopravvivenza libera da malattia a 10 anni è circa del 15% e la percentuale di sopravvivenza globale è circa del 25%. Le lesioni più estese hanno più frequentemente dei linfonodi positivi. Le dimensioni del tumore hanno anche un valore prognostico indipendente con un peggioramento della prognosi per ogni incremento delle dimensioni di 1 cm. Alcuni esperti credono che un tumore < 1 cm sia associato a una prognosi eccellente e che non sia necessaria alcuna terapia adiuvante e alcuni pensano che un tumore di dimensioni superiori ai 5 cm richieda una terapia adiuvante sistemica prima della mastectomia o della chirurgia conservativa. Le pazienti con tumori scarsamente differenziati hanno una prognosi peggiore; tuttavia, anatomopatologi diversi tendono a valutare in maniera differente gli stessi vetrini.

Carcinoma in situ: il CLIS viene trattato con l’osservazione stretta o con la mastectomia bilaterale. La maggior parte delle pazienti con CDIS è trattata con la mastectomia semplice, che è stato il trattamento standard per questo tipo di cancro. Tuttavia, un numero crescente di pazienti viene trattato o con la sola escissione allargata (specialmente se la lesione è più piccola di 2,5 cm e le caratteristiche istologiche sono favorevoli) o con l’escissione allargata più la radioterapia quando le dimensioni e le caratteristiche istologiche sono meno favorevoli. Studi randomizzati hanno dimostrato che l’associazione della radioterapia riduce la possibilità che un cancro invasivo della mammella si sviluppi almeno per 5-10 anni dopo il trattamento. Non ci sono prove che la radioterapia migliori la sopravvivenza, che, comunque, supera il 98-99% indipendentemente dal trattamento usato.

Cancri infiammatori: il trattamento iniziale è rappresentato dalla terapia sistemica, solitamente la chemioterapia, seguita dalla radioterapia. Anche se circa i 2/3 dei cancri infiammatori della mammella sono RE+, il ruolo dell’ormonoterapia, da sola o associata alla chemioterapia, non è ben definito.

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Terapia adiuvante sistemica

La chemioterapia e la terapia endocrina, iniziate subito dopo la fine della terapia primaria e continuate per mesi o anni, ritardano la comparsa delle recidive in quasi tutte le pazienti e prolungano la sopravvivenza in alcune. Non c’è nessuna prova che queste terapie guariscano le pazienti che non sono state guarite dalla mastectomia o dalla radioterapia.

La chemioterapia adiuvante riduce le probabilità annuali di morte del 25-35% nelle donne in pre-menopausa con linfonodi positivi, almeno durante i primi 15 anni di follow-up. A 10 anni, più del 10% delle pazienti trattate è ancora in vita e il tempo mediano di sopravvivenza delle pazienti in pre-menopausa con linfonodi positivi trattate con la chemioterapia adiuvante è in media di 1,5-3 anni più lungo di quello delle pazienti trattate con la sola mastectomia. La chemioterapia riduce anche le probabilità annuali di morte nelle donne in pre-menopausa che sono a rischio inferiore di ricorrenza (p. es., quelle senza interessamento linfonodale) del 25-35%. Tuttavia, la differenza assoluta nella sopravvivenza a 10 anni è più piccola (1-9%) di quella osservata nelle pazienti con linfonodi positivi. L’effetto della chemioterapia adiuvante nelle donne in post-menopausa è circa la metà di quello ottenuto nelle donne in pre-menopausa: una riduzione del 9-19% nella probabilità annuale di morte e un beneficio assoluto ancora più piccolo nella sopravvivenza a 10 anni. Le donne in post-menopausa affette da tumori RE-, traggono il massimo beneficio dalla chemioterapia adiuvante.

I regimi di chemioterapia combinata, quali la ciclofosfamide, il metotrexato e il 5-fluorouracile (CMF) o la ciclofosfamide e la doxorubicina (CA), sono più efficaci rispetto all’uso di un solo farmaco. I regimi somministrati per 4-6 mesi sono i più efficaci, o comunque, sono efficaci quanto i regimi somministrati per 6-24 mesi. Gli effetti collaterali acuti dipendono dal protocollo usato, ma, in genere, includono la nausea e raramente il vomito, le mucositi, una facile stancabilità, l’alopecia lieve o grave, la mielosoppressione e la trombocitopenia. Gli effetti collaterali a lungo termine si verificano infrequentemente con la maggior parte dei protocolli e il decesso per infezione o sanguinamento è raro (< 0,2%).

Nelle donne con tumori RE+ la terapia adiuvante con tamoxifene fornisce quasi gli stessi benefici della chemioterapia nella donne in pre-menopausa. Il tamoxifene adiuvante per 5 anni riduce le probabilità annuali di morte di circa il 25% nelle donne in pre-menopausa e in post-menopausa e nelle donne con o senza interessamento dei linfonodi ascellari. L’aumento assoluto della sopravvivenza è di poco inferiore al 10% a 10 anni. Il trattamento per 5 anni è superiore a quello per soli 2 anni, ma il trattamento per > 5 anni non porta alcun vantaggio. Il tamoxifene non ha praticamente effetti collaterali acuti, specialmente nelle donne in post-menopausa, ma ha degli effetti antiestrogenici sul tessuto mammario ed effetti estrogenici su altre parti dell’organismo. Allora, il tamoxifene riduce l’incidenza del cancro nella mammella controlaterale (un effetto antiestrogenico) e riduce il colesterolo sierico (un effetto estrogenico). La terapia con tamoxifene può ridurre la mortalità per affezioni cardiovascolari e osteoporosi, ma aumenta significativamente il rischio di sviluppare un cancro dell’endometrio. Tuttavia, il miglioramento della sopravvivenza per il cancro della mammella supera di gran lunga l’aumento del rischio di morte per il cancro dell’utero. Il tamoxifene può causare una depressione in  10% delle pazienti.

Alcune forme di chemioterapia adiuvante (p. es., la CMF per 6 mesi, la CA per 4 mesi) devono essere eseguite di routine dopo la mastectomia o dopo la tumorectomia più radioterapia in tutte le pazienti in pre-menopausa con linfonodi positivi. Il tamoxifene può essere usato al posto della chemioterapia nelle donne in pre-menopausa con un tumore RE+, specialmente in quelle con tumori a basso rischio, ma la somministrazione sia del tamoxifene che della chemioterapia non ha dimostrato vantaggi nelle donne in pre-menopausa. Dopo la terapia locale, la terapia adiuvante con tamoxifene deve essere eseguita di routine per almeno 5 anni nelle donne in post-menopausa con tumori RE+. La chemioterapia adiuvante può essere somministrata alle donne in post-menopausa con tumori RE-, e la somministrazione sia della chemioterapia che del tamoxifene in questo gruppo di donne ha mostrato un modesto vantaggio. Comunque, non tutti sono d’accordo sul fatto di somministrare la terapia adiuvante con tamoxifene per ottenere solo un modesto beneficio in certi gruppi di pazienti (p. es., le pazienti senza interessamento linfonodale o le donne in post-menopausa a cui è stata somministrata chemioterapia). Dibattuto è anche il trattamento con alte dosi di chemioterapici e trapianto del midollo osseo, ancora in fase di studio.

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Terapia della malattia metastatica

Il cancro della mammella può metastatizzare praticamente in tutti gli organi; più comunemente, metastatizza ai polmoni, al fegato, alle ossa, ai linfonodi e alla cute. Sono frequenti anche le metastasi al SNC. Circa il 10% delle pazienti con metastasi ossee, alla fine, sviluppa un’ipercalcemia. La maggior parte delle metastasi cutanee si verifica nella regione del pregresso intervento chirurgico; sono frequenti anche le metastasi al cuoio capelluto. Poiché le metastasi si manifestano, di solito, anni o decenni dopo la diagnosi e dopo il trattamento iniziale del cancro della mammella, la comparsa di nuovi sintomi richiede un’immediata valutazione.

Il trattamento delle metastasi aumenta la sopravvivenza mediana di 3-6 mesi. Anche le terapie relativamente tossiche (p. es., la chemioterapia) alleviano i sintomi e migliorano la qualità della vita. La scelta della terapia dipende dallo stato dei recettori ormonali del tumore primitivo o della lesione metastatica, dalla lunghezza dell’intervallo libero da malattia (dalla diagnosi alla comparsa delle metastasi), dal numero delle sedi metastatiche e degli organi interessati e dallo stato menopausale della paziente. Quando vi è una metastasi, di solito, ve ne sono anche delle altre, magari non evidenti al momento. Perciò, la maggior parte delle pazienti con malattia metastatica è trattata con un’endocrinoterapia o con una chemioterapia sistemica. È possibile, comunque, che le pazienti con un lungo intervallo libero da malattia (p. es.,  2 anni) e una singola metastasi non mostrino i segni delle altre metastasi per mesi o anni; in queste pazienti può essere usata la sola radioterapia per trattare le lesioni ossee sintomatiche e isolate o le recidive cutanee locali non suscettibili di resezione chirurgica. La radioterapia è il trattamento più efficace per le metastasi cerebrali, permettendo, a volte, un lungo controllo della malattia. Le pazienti con metastasi multiple al di fuori del SNC devono essere trattate inizialmente con una terapia sistemica; la radioterapia è, di solito, evitata fino a quando non ci sono le prove del fallimento del trattamento sistemico. Non ci sono prove che il trattamento delle pazienti con metastasi asintomatiche aumenti in modo sostanziale la sopravvivenza.

La terapia endocrina viene preferita alla chemioterapia nelle pazienti con tumori RE+, un intervallo senza malattia superiore ai 2 anni o una malattia che non mette a rischio la vita della paziente. La terapia endocrina è particolarmente efficace nelle donne quarantenni in pre-menopausa e nelle donne in post-menopausa che hanno avuto la loro ultima mestruazione da oltre 5 anni. Comunque, nessuno di questi fattori deve essere considerato un criterio esclusivo per preferire la terapia endocrina alla chemioterapia. Per esempio, una donna di 70 anni con un tumore RE-, un intervallo libero da malattia superiore ai 5 anni e una malattia metastatica limitata a diverse ossa, può essere trattata con la terapia endocrina. Al contrario, una donna di 35 anni in pre-menopausa con un tumore RE+, un intervallo libero da malattia di 6 mesi e un interessamento epatico massivo può essere una candidata alla chemioterapia.

Il tamoxifene rappresenta, di solito, la prima terapia endocrina impiegata, a causa della sua relativa assenza di tossicità. Nelle donne in pre-menopausa, l’ablazione delle ovaie con l’intervento chirurgico, la radioterapia o l’uso dell’antagonista dell’ormone luteinizzante rappresentano ragionevoli alternative. Le pazienti che rispondono inizialmente alla terapia endocrina, ma che hanno una progressione della malattia mesi o anni dopo, devono essere trattate con cicli addizionali di terapia endocrina fino a quando non si osserva più alcuna risposta. I progestinici (il medrossiprogesterone acetato o il megestrolo acetato) sono privi di effetti tossici quasi quanto il tamoxifene e sono spesso usati come trattamento endocrino di seconda scelta. Gli inibitori delle aromatasi che riducono la disponibilità degli estrogeni necessari per mantenere la crescita tumorale, possono essere usati come farmaco di 2a o 3a scelta nelle donne in post-menopausa. Fino a poco tempo fa, l’aminoglutetimmide (somministrato con l’idrocortisone) era il solo inibitore dell’aromatasi disponibile; oggi lo stanno rapidamente sostituendo degli analoghi (p. es., il letrozolo) che sono più potenti e che non richiedono la terapia sostitutiva con idrocortisone. Sebbene gli estrogeni e gli androgeni siano anch’essi efficaci, non vengono usati frequentemente perché danno più effetti collaterali rispetto alle altre forme di terapia endocrina. Per la stessa ragione, l’adrenalectomia e l’ipofisectomia vengono usate raramente.

I farmaci citotossici più efficaci per il trattamento delle metastasi da tumore mammario sono la ciclofosfamide, la doxorubicina, il paclitaxel, il docetaxel, il navelbina, la capecitabina e la mitomicina-C. La percentuale di risposta a una combinazione di farmaci è superiore a quella a un singolo farmaco. La maggior parte delle pazienti che necessitano di un trattamento palliativo con una chemioterapia combinata è inizialmente trattata con ciclofosfamide, metotrexato e 5-fluorouracile (CMF) oppure con ciclofosfamide, doxorubicina e 5-fluorouracile (CDF). Le percentuali di risposta alle terapie che contengono la doxorubicina sono più alte di quelle ottenute con il CMF, così come con questo farmaco c’è un piccolo effetto benefico addizionale sulla sopravvivenza. Tuttavia, i regimi con la doxorubicina sono associati con più gravi alopecia e cardiotossicità. La somministrazione di prednisone con la CMF aumenta la percentuale di risposta al trattamento e riduce la mielosoppressione e la tossicità gastrointestinale, ma aumenta l’incidenza di infezioni secondarie e di fenomeni tromboembolici. Nessun’altra combinazione (p. es., una combinazione con il paclitaxel) ha dimostrato di essere superiore al CAF. Nelle pazienti refrattarie alla ciclofosfamide e alla doxorubicina, la palliazione può essere ottenuta con il taxane, la navelbina, la mitomicina-C o la vinblastina, ma raramente sono ottenute delle remissioni prolungate.

L’uso di nuovi farmaci o strategie terapeutiche, come gli immunomodulatori, deve essere preso in considerazione durante le fasi precoci della malattia, prima che venga intrapresa una chemioterapia estesa, se si vuole che sia benefico. L’interferone, l’intereuchina-2, i linfociti-killer attivati, il tumor necrosis factor e gli anticorpi monoclonali non hanno ancora un ruolo chiaro nella terapia del cancro della mammella. Tuttavia, gli anticorpi monoclonali contro il recettore del fattore della crescita HER-2/neu (trastuzumab) possono indurre la remissione nelle pazienti con cancro metastatico della mammella e aumentare il valore della terapia citotossica in alcune pazienti.

In queste pazienti è in studio anche il trattamento con elevate dosi di chemioterapia e con il trapianto del midollo osseo. Alcuni risultati sono promettenti, ma non è chiaro se questo approccio possa migliorare sostanzialmente la sopravvivenza nelle donne che non rispondono alla chemioterapia con dosi standard.

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CANCRO DELLA MAMMELLA NELL’UOMO

L’incidenza del cancro della mammella negli uomini è pari all’1% di quella osservata nelle donne. Questo tumore è spesso diagnosticato in uno stadio più avanzato negli uomini perché la diagnosi è sospettata raramente, ma la prognosi è identica a quella delle donne nello stesso stadio di malattia. Anche il trattamento è praticamente uguale, sebbene si ricorra raramente alla chirurgia conservativa e non siano disponibili dati certi sul valore della terapia adiuvante. I tumori metastatici rispondono a tutte le terapie endocrine usate per il trattamento del cancro della mammella femminile e all’orchiectomia. Negli uomini con malattia metastatica refrattaria alla terapia endocrina può essere ottenuta una palliazione con la polichemioterapia.

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