19. PEDIATRIA

265. INFEZIONI NEI BAMBINI

INFEZIONI VIRALI

INFEZIONE DA VIRUS DELL’IMMUNODEFICIENZA UMANA NEL BAMBINO

Infezione causata da uno dei 2 retrovirus correlati (HIV-1 e HIV-2), che causa un progressivo deterioramento immunologico e infezioni opportunistiche e neoplasie associate; lo stadio terminale è la sindrome da immunodeficienza acquisita (Acquire Immunodeficiency Syndrome, AIDS).

Sommario:

Introduzione
Epidemiologia
Sintomi e segni
Esami di laboratorio e diagnosi
Prognosi
Prevenzione della trasmissione del HIV
Prevenzione delle infezioni opportunistiche
Terapia


La classificazione del HIV dei Centers for Disease Control and Prevention nei bambini di età < 13 anni nati da madri con infezione da HIV o con infezione da HIV nota, è mostrata nella Tab. 265-12. Le condizioni indicative di AIDS negli adolescenti sono identiche a quelle per gli adulti (v. Tab. 163-2). Queste classificazioni di sorveglianza sono utili per definire la progressione clinica di malattia. Esse enfatizzano l’importanza della conta T linfocitaria CD4+ come marker dello status immunologico e prognostico (in aggiunta alla concentrazione plasmatica del virus; v. Esami di laboratorio e diagnosi).

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Epidemiologia

Inizialmente, negli USA, è possibile che la AIDS si sia verificata nei bambini e negli adulti contemporaneamente. Sino a ora, >7400 casi di AIDS sono stati riportati in bambini e adolescenti, rappresentando il 2% del numero complessivo di casi negli USA. Più del 90% dei bambini statunitensi ha contratto la malattia dalla propria madre, o prima della nascita o nel periodo peripartum (trasmissione verticale). La maggior parte dei rimanenti casi (inclusi i pazienti con emofilia o altre coagulopatie) ha ricevuto sangue o emoderivati contaminati. Pochi casi sono causati da abuso sessuale. Meno del 5% dei casi non ha fattori di rischo identificabili. La trasmissione verticale attualmente rappresenta la causa di quasi tutti i nuovi casi nei bambini in età preadolescenziale.

Il rischio di infezione per un lattante nato da madre HIV-positiva che non ha ricevuto terapia antivirale durante la gravidanza è stimato tra il 13 e il 39%. Il rischio può essere più elevato nei lattanti nati da madri in cui si osserva la sieroconversione durante la gravidanza e da quelle con malattia in fase avanzata, bassa conta T linfocitaria CD4+ periferica, rottura prolungata delle membrane e alta concentrazione virale, dimostrata dall’antigenemia p24 del HIV, dalla coltura virale quantitativa o dalla concentrazione dell’RNA. Nei parti per via vaginale, il primo nato di due gemelli è a rischio più elevato del secondo. Il taglio cesareo sembra ridurre il rischio. Tuttavia, la trasmissione materno-fetale può essere significativamente ridotta dalla terapia con zidovudina (ZDV, AZT) per la madre e il neonato (v. oltre, Prevenzione della trasmissione del HIV).

Il HIV è stato identificato sia nella frazione cellulare che acellulare del latte materno. Il rischio di trasmissione con l’allattamento può essere aumentato nelle madri con elevata concentrazione plasmatica del virus.

L’acquisizione del HIV durante l’adolescenza contribuisce significativamente al grande numero di casi osservato nei giovani adulti. Le vie di trasmissione negli adolescenti sono simili a quelle degli adulti (v. Cap. 163).

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Sintomi e segni

L’infezione da HIV nei bambini causa un ampio spettro di manifestazioni cliniche, delle quali la AIDS è la più grave. Le categorie cliniche A, B e C (v. Tab. 265-12 e 265-13) descrivono molti dei comuni problemi clinici mostrati dai bambini di età inferiore a 13 anni con infezione da HIV.

I lattanti che hanno contratto l’infezione nel periodo perinatale solitamente sono asintomatici durante i primi mesi di vita. Sebbene l’età mediana di comparsa dei sintomi sia stimata essere di 3 anni, un numero crescente di bambini rimane asintomatico per più di 5 anni. Si possono distinguere due tipologie di infezione da HIV sulla base del periodo di incubazione e della progressione dei sintomi. Dal 10 al 15% circa dei bambini ha una rapida progressione di malattia con comparsa dei sintomi nel primo anno di vita e morte tra i 18 e i 36 mesi; si ritiene che questi bambini abbiano contratto in utero l’infezione da HIV più precocemente. La maggior parte dei bambini, tuttavia, probabilmente contrae l’infezione alla nascita o in prossimità della nascita e mostra una più lenta progressione di malattia, sopravvivendo oltre i 5 anni.

Le più comuni manifestazioni dell’infezione da HIV nei bambini includono linfoadenopatia generalizzata, epatomegalia, splenomegalia, ritardo dell’accrescimento, candidiasi orale, diarrea ricorrente, parotite, cardiomiopatia, epatite, nefropatia, malattie del SNC (incluso ritardo dello sviluppo, che può essere progressivo), polmonite interstiziale linfoide, batteriemia ricorrente, infezioni opportunistiche e malattie neoplastiche.

La polmonite da Pneumocystis carinii (Pneumocystis Carinii Pneumonia, PCP) è la più comune, grave infezione opportunistica nei bambini con infezione da HIV ed è associata a un’elevata mortalità. La PCP può verificarsi già a 4-6 sett., ma si verifica principalmente nei lattanti tra i 3 e i 6 mesi che hanno contratto l’infezione prima della nascita o alla nascita.

I lattanti e i bambini con PCP sviluppano caratteristicamente una polmonite subacuta diffusa con dispnea a riposo, tachipnea, desaturazione ossiemoglobinica, tosse non produttiva e febbre (nei bambini e negli adulti immunocompromessi non affetti da infezione da HIV, l’esordio è spesso più acuto e fulminante).

Altre comuni infezioni opportunistiche nel bambino includono esofagite da Candida, infezione da cytomegalovirus disseminata e infezioni croniche o disseminate da virus dell’herpes simplex e varicella-zoster e, meno comunemente, da Mycobacterium tuberculosis, infezione da Mycobacterium avium, enterite cronica da Cryptosporidium o altri microrganismi e infezione criptococcica o da Toxoplasma gondii disseminata o localizzata a livello del SNC.

Le neoplasie maligne sono relativamente insolite, ma i leiomiosarcomi e alcuni linfomi, inclusi i linfomi del SNC e i linfomi non-Hodgkin a cellule B (tipo di Burkitt), si verificano molto più frequentemente che nei bambini immunocompetenti. Il sarcoma di Kaposi è molto raro nei bambini.

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Esami di laboratorio e diagnosi

La conta dei linfociti T-helper CD4+ può essere inizialmente normale ma alla fine si riduce (per i limiti inferiori dei valori normali per l’età, v. Tab. 265-12). La conta dei linfociti T-suppressor CD8+ solitamente aumenta in fase iniziale e non cala sino a una fase tardiva dell’infezione. Queste modificazioni delle popolazioni cellulari determinano una riduzione del rapporto CD4+:CD8+, un riscontro comune nell’infezione da HIV (così come in altre infezioni).

Le concentrazioni sieriche delle immunoglobuline, in particolare IgG e IgA, spesso sono elevate. Alcuni pazienti sviluppano panipogammaglobulinemia. I pazienti possono essere anergici ai test cutanei con antigeni. Nei bambini di età inferiore ai 12 mesi le concentrazioni virali plasmatiche sono tipicamente molto alte (in media, approssimativamente 300000 copie di RNA/ml). Dai 24 mesi, le concentrazioni virali si riducono (a una media di approssimativamente 40000 copie di RNA/ml). La determinazione della concentrazione virale plasmatica associata alla conta dei linfociti CD4+ sembra fornire un’informazione prognostica più accurata della determinazione di uno solo dei due marker.

La diagnosi solitamente viene formulata impiegando test anticorpali sul siero (Enzyme ImmunoAssay [EIA]e Western blot di conferma) tranne che nei bambini di età inferiore ai 18 mesi, nei quali possono essere presenti anticorpi acquisiti passivamente dalla madre (v. oltre). Un test anticorpale per HIV positivo in un bambino  18 mesi solitamente indica la presenza dell’infezione. Gli anticorpi sierici contro il HIV persistono in quasi tutte le persone colpite dall’infezione, sebbene alcuni pazienti affetti da AIDS divengano sieronegativi nella fase tardiva della malattia. Occasionalmente, un bambino con infezione da HIV può non presentare anticorpi contro il HIV poiché affetto da ipogammaglobulinemia. Molto raramente, un bambino con infezione da HIV può essere negativo a una determinazione anticorpale con EIA, ma positivo al Western blot o a test virologici come la coltura o la PCR.

Prima di effettuare il test, la madre (e il bambino, se abbastanza grande) devono essere edotti dei possibili rischi psicosociali e dei benefici dell’esecuzione del test e delle conseguenze dell’infezione da HIV. Il consenso verbale deve essere annotato nella documentazione clinica del paziente. Un consenso scritto può essere richiesto dalle leggi statali o locali ma ciò può scoraggiare l’effetuazione del test senza aggiungere un significativo beneficio. Il rifiuto del paziente o del tutore ad accordare il consenso non solleva i medici delle loro responsabilità professionali e legali, e talvolta l’autorizzazione alla esecuzione dei test deve essere ottenuta mediante altri mezzi (p. es., ordine della magistratura). I risultati del test devono essere valutati con la famiglia, con la persona che si prende maggiormente cura del bambino e, se abbastanza grande, con il bambino stesso; se il bambino è HIV-positivo, devono essere forniti un’adeguata informazione e una successiva assistenza di follow-up. In ogni caso, è essenziale mantenere la riservatezza.

Dopo abuso sessuale subito da una persona con infezione o a rischio di infezione da HIV, il bambino deve essere valutato sierologicamente al momento dell’abuso e a 6 sett., 3 mesi e 6 mesi dopo l’abuso sessuale. Se possibile, l’autore dell’abuso deve essere sottoposto a valutazione sierologica. Deve essere fornita assistenza al bambino e alla famiglia.

Per i lattanti nati da donne sieropositive per HIV (v. Tab. 265-14), i test di laboratorio preferibili sono la coltura del HIV e la PCR, che possono consentire la diagnosi nel 30-50% dei casi alla nascita e in quasi il 100% tra i 4 e i 6 mesi. Un test iniziale deve essere effettuato a circa 1 mese di vita e, se negativo, ripetuto tra i 4 e i 6 mesi di età. Un test positivo deve essere confermato impiegando lo stesso test o un altro. Il test modificato per la ricerca dell’antigene p24 è meno sensibile della coltura virale o della PCR e deve essere impiegato solo se queste ultime non sono disponibili. Se un lattante di età inferiore ai 18 mesi che ha un test sierologico positivo per HIV sviluppa una malattia che configura la AIDS (categoria C; v. Tab. 265-13), l’infezione da HIV viene diagnosticata anche se i test virologici sono negativi.

Un bambino con due test virologici negativi, effettuati a 1 e 4 mesi di età o successivamente, viene considerato esente da infezione in assenza di qualsivoglia malattia clinica e la profilassi contro infezioni opportuniste può essere interrotta. I test sierologici di follow-up devono escludere un’infezione da HIV e confermare la sieroreversione (perdita degli anticorpi contro il HIV acquisiti passivamente). Tali test includono o due EIA negativi eseguiti tra i 6 e i 18 mesi d’età o un EIA negativo a un’età maggiore di 18 mesi. Alcuni esperti raccomandano l’esecuzione di un EIA finale all’età di 24 mesi.

I pazienti che soddisfano i criteri di AIDS (v. Tab. 265-12 e 265-13) devono essere segnalati all’appropriata struttura di sanità pubblica. In molti stati deve essere riportata anche l’infezione da HIV.

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Prognosi

La maggior parte dei bambini, con infezione contratta nel periodo perinatale, sopravvive oltre i 5 anni di età. Circa il 10-15% muore prima dei 4 anni d’età, la maggior parte dei quali prima dei 18 mesi d’età. Comunque, nuove terapie stanno portando a sopravvivenze significatamente più prolungate.

Infezioni opportunistiche, in particolare la PCP, interessamento neurologico progressivo, e grave deperimento, sono associati a una prognosi sfavorevole. Nella PCP, il tasso di mortalità varia dal 5 al 40% se trattata ed è quasi del 100% se non trattata. La prognosi è severa anche per quelli nei quali è identificabile precocemente il virus (p. es., dai 7 giorni di vita) o che sviluppano sintomi nel primo anno di vita.

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Prevenzione della trasmissione del HIV

Per la trasmissione perinatale: il trattamento con ZDV è raccomandato per tutte le donne gravide con infezione da HIV. In uno studio che è divenuto di riferimento, la profilassi con ZDV riduceva il rischio di trasmissione perinatale di circa 2/3. La ZDV viene somministrata per via orale cominciando dalla 14a fino alla 34a sett. di gravidanza e proseguendo per tutta la gravidanza, somministrata EV durante il travaglio sino al parto, e somministrata per via orale al neonato per le prime 6 sett. di vita (v. Tab. 265-15). Molti esperti raccomandano l’aggiunta di terapia antiretrovirale supplementare alla profilassi con ZDV per migliorare le condizioni di salute materne e forse ridurre ulteriormente il rischio di trasmissione del HIV. La donna gravida e il suo curante devono considerare i possibili benefici e rischi di tale terapia in assenza di dati definiti. In generale, una terapia antiretrovirale combinata (due analoghi nucleosidici inibitori della transcriptasi inversa e un inibitore proteasico) rappresenta il trattamento standard attualmente raccomandato per gli adulti non in stato di gravidanza con infezione da HIV. Pertanto, una donna con infezione da HIV già in trattamento con terapia antiretrovirale combinata che diviene gravida deve probabilmente proseguire la terapia, mentre una donna gravida con infezione da HIV non trattata precedentemente deve intraprendere una terapia combinata con 2 o 3 farmaci come raccomandato per gli adulti non in gravidanza. La chemoprofilassi con ZDV deve essere associata a qualsiasi regime terapeutico antiretrovirale proposto.

L’allattamento (o la donazione a banche del latte) deve essere scoraggiata nelle donne con infezione da HIV in quelle nazioni in cui fonti di nutrimento alternative sicure e di cui è sostenibile il costo sono prontamente disponibili, come negli USA. Tuttavia, nelle nazioni in cui le malattie infettive e la malnutrizione sono importanti cause di mortalità infantile precoce, l’OMS raccomanda che le madri allattino indipendentemente dalla sierologia per HIV.

Per la trasmissione negli adolescenti: poiché gli adolescenti sono particolarmente a rischio per infezione da HIV, essi devono essere educati, avere accesso alla effettuazione di test per HIV e conoscere il proprio stato sierologico. L’educazione deve includere informazioni circa la trasmissione, le implicazioni dell’infezione, e le strategie preventive, compresa l’astensione da comportamenti ad alto rischio e pratiche sessuali sicure (impiego corretto e costante del preservativo) per quelli che sono sessualmente attivi.

Un particolare sforzo deve essere diretto agli adolescenti ad alto rischio di infezione da HIV. Il consenso informato è necessario per l’esecuzione del test e il rilascio di informazioni circa lo stato sierologico. Le decisioni relative alla comunicazione della sierologia per HIV a un partner sessuale senza il consenso del paziente devono essere basate sulla probabilità che il partner sia a rischio, se il partner ha una ragionevole motivo di sospettare il rischio e di prendere le relative precauzioni, se c’è l’esigenza legale di celare o comunicare tale informazione, e i possibili effetti di tale comunicazione sulle relazioni future.

Per il personale sanitario: il rischio medio per il personale sanitario di contrarre l’infezione da HIV da una puntura accidentale con ago è dello 0,3%. Il rischio può essere più elevato nelle esposizioni derivanti da puntura con ago a elevato volume ematico proveniente da un paziente con un’elevata carica virale. Il rischio è più basso (< 0,3%) dopo esposizione a superfici mucose o alla cute. Tuttavia, ogni sforzo deve essere fatto per evitare l’esposizione a sangue e altri liquidi biologici che possono contenere il HIV. Precauzioni standard devono essere seguite scrupolosamente da tutto il personale ospedaliero. Raccomandazioni temporanee per la profilassi post-esposizione devono essere consultate in caso di esposizione occupazionale documentata (v. Cap. 163). I guanti non sono richiesti dalla Occupational Safety and Health Administration per manipolare abitualmente il latte umano. Dovrebbero, tuttavia, essere indossati dal personale sanitario quando l’esposizione al latte materno può essere frequente o prolungata, come nelle banche del latte. Le banche di latte umano devono seguire le linee guida sviluppate dallo U.S. Public Health Service, che include lo screening di tutti i donatori per infezione da HIV, la valutazione dei fattori di rischio che predispongono all’infezione, e la pastorizzazione di tutti i campioni di latte. Per detergere spandimenti di sangue o altri liquidi organici, il materiale organico deve essere rimosso e, poi la superficie disinfettata con varechina blandamente diluita (p. es, da 1:10 a 1:100).

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Prevenzione delle infezioni opportunistiche

La profilassi contro la polmonite da P. carinii è indicata per la maggior parte dei pazienti con significativa immunocompromissione (v. Tab. 265-16). Una chemoprofilassi per tutta la vita, indipendentemente dalla conta dei linfociti T CD4+, deve essere somministrata a chiunque abbia avuto la PCP.

La profilassi è raccomandata per tutti i lattanti nati da madre con infezione da HIV a cominciare da 4-6 sett. di vita. Deve essere interrotta nei bambini in cui l’infezione da HIV è stata esclusa da PCR o colture virali sequenziali negative (v. Tab. 265-16). I bambini il cui stato di infezione da HIV è indeterminato devono proseguire la profilassi per tutto il primo anno di vita.

La profilassi deve essere continuata dopo il primo anno di età nei bambini con infezione da HIV che abbiano mostrato una qualsiasi precedente conta dei linfociti T CD4+ indicativa di grave immunosoppressione (cioè, conta totale < 750 cellule/ml o una percentuale di CD4+ dei linfociti totali circolanti < 15%). La profilassi può essere sospesa a 1 anno quando la conta dei linfociti T CD4+ è rimasta superiore a questi livelli soglia.

Per i bambini da 1 a 5 anni con infezione da HIV, la profilassi per la PCP deve essere somministrata se una qualsiasi conta T-linfocitaria CD4+ è < 500 cellule/ml o la percentuale di CD4+ è < 15%; la conta T-linfocitaria CD4+ si riduce rapidamente; o è presente una malattia da HIV gravemente sintomatica (categoria C) (v. Tab. 265-13). Eccettuata la definizione di differenti valori età-specifici di bassa conta assoluta CD4+, i criteri sono gli stessi per i bambini più grandi e gli adolescenti. Per i bambini  6 anni, qualsiasi conta CD4< 200 cellule/ml o < 15% è una indicazione per la profilassi. Per gli adolescenti (o gli adulti), la profilassi è indicata se la conta cellulare CD4+ è < 200/ml o < 15%, o il paziente ha una febbre inspiegata per  2 sett. o una storia di candidosi orofaringea.

I bambini di età >1 anno con infezione da HIV che non sono stati precedentemente sottoposti a profilassi per la PCP (p. es., quei bambini non identificati in precedenza o la cui profilassi contro la PCP è stata interrotta) devono essere sottoposti a profilassi se la loro conta cellulare CD4+ indica un’immunosoppressione grave (categoria 3, v. Tab. 265-12).

Per la profilassi contro la PCP, il trattamento di scelta per i bambini è il trimethoprim-sulfametoxazolo (TMP-SMX) 150 mg TMP/m2/die con 750 mg SMX/m2 /die PO diviso in 2 dosi per 3 giorni consecutivi/sett. (p. es., lunedì-martedì-mercoledì); schemi alternativi includono la stessa dose totale una volta al giorno per tre giorni/sett., o bid ogni giorno della settimana o a giorni alterni. Nei pazienti  5 anni che non tollerano il TMP-SMX, può essere somministrata la pentamidina in forma aereosolica (300 mg al mese mediante l’inalatore Respirgard II). (È stata impiegata anche la pentamidina EV ma sembra essere meno efficace e potenzialmente più tossica di altri regimi profilattici.) Uno schema alternativo, in particolare per i pazienti di età < 5 anni, è il dapsone per via orale quotidianamente (2 mg/kg, fino a un massimo di 100 mg).

Altri farmaci che possono essere utili profilatticamente contro la PCP includono la pirimetamina con il dapsone, la pirimetamina-sulfadossina, e l’atovaquone per via orale. Tuttavia, l’esperienza con questi farmaci negli adulti e nei bambini è molto limitata, e devono essere considerati solo quando gli schemi raccomandati non sono tollerati o non possono essere impiegati.

Può essere giustificata una profilassi contro altre infezioni opportunistiche. Per la profilassi contro le infezioni da Mycobacterium avium nei bambini  6 anni con conte CD4+ < 50/ml (o nei bambini dai 2 ai 6 anni con conte CD4< 75/ml, da 1 a 2 anni < 500/ml, più piccoli di 1 anno < 750/ ml), l’azitromicina con cadenza settimanale o la claritromicina con cadenza quotidiana rappresentano il farmaco di scelta, e la rifabutina in somministrazione quotidiana rappresenta un’alternativa. I dati sull’impiego della profilassi per altre infezioni opportunistiche, come l’infezione da cytomegalovirus, micosi e l’encefalite da toxoplasma, sono limitate.

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Terapia

I farmaci antiretrovirali, il loro dosaggio raccomandato, e i loro più importanti effetti avversi sono elencati nella Tab. 265-17. Nuovi farmaci antiretrovirali, immunomodulatori, e vaccini sono in corso di valutazione. Poiché le opinioni degli esperti e le conoscenze sulle strategie diagnostiche e terapeutiche si modificano rapidamente, si consiglia di ricorrere alla consulenza di specialisti nel trattamento di bambini con infezione da HIV.

L’inizio della terapia antiretrovirale dipende da criteri virologici, immunologici, e clinici mostrati nelle Tab. 265-12 e 265-13. Sulla base delle osservazioni condotte sugli adulti asintomatici, in cui la terapia riduce la concentrazione virale plasmatica e rallenta il calo della conta cellulare CD4+, la terapia deve essere fortemente considerata nei bambini asintomatici (ovvero, categoria N nella Tab. 265-12) senza evidenza di immunosoppressione. La terapia deve essere somministrata a tutti i bambini clinicamente sintomatici (categorie A, B, C) e ai lattanti di età < 12 mesi con infezione, indipendentemente dalla categoria clinica o immunologica. Il monitoraggio clinico e laboratoristico è importante per identificare la tossicità del farmaco e l’insuccesso terapeutico.

La terapia combinata con gli analoghi nucleosidici inibitori della transcriptasi inversa ZDV più didanosina o ZDV più lamivudina è superiore alla sola didanosina, soprattutto per i bambini di età < 3 anni. La ZDV da sola sembra essere meno efficace della didanosina da sola o della ZDV più didanosina. Altre combinazioni di analoghi nucleosidici inibitori della transcriptasi inversa (p. es., didanosina e stavudina; o lamivudina e stavudina) sono utili, ma sono disponibili meno dati comparativi. Triplici associazioni farmacologiche (p. es., ZDV, lamivudina, e un inibitore proteasico [es, nelfinavir, ritonavir, indinavir, saquinavir]o ZDV, lamivudina, e un inibitore della transcriptasi inversa non nucleosidico [es, nevirapina o delavirdina]) si sono dimostrati capaci nell’adulto di determinare una riduzione marcata e sostenuta della concentrazione plasmatica del virus.

Per i bambini esistono meno dati, ma schemi terapeutici a due o tre farmaci che contengono un inibitore proteasico sembrano essere superiori a combinazioni di due farmaci con analoghi nucleosidici in termini di effetti immunologici e virologici nei bambini. Il regime terapeutico preferibile per i bambini deve probabilmente comprendere un inibitore proteasico e due analoghi nucleosidici inibitori della trancriptasi inversa, in modo simile all’adulto (v. Cap. 163). Poiché i regimi terapeutici con doppio analogo nucleosidico sono comunque associati a benefici clinici, vengono considerati come schemi alternativi (come lo sono i regimi che contengono due analoghi nucleosidici e un inibitore della transcriptasi inversa non-nucleosidico), particolarmente per i bambini di età > 3 anni con sintomi lievi o per quelli che non tollerano o rifiutano di assumere inibitori proteasici. La monoterapia (tranne che per la chemoprofilassi nei lattanti esposti al HIV) viene oggi sconsigliata. La terapia antiretrovirale pediatrica è complicata dalla disponibilità e dal sapore dei farmaci; interazioni farmacologiche; differenze farmacocinetiche tra lattanti, bambini, e adolescenti; e problemi di compliance con i bambini (che dipendono da altri per la somministrazione dei farmaci) e adolescenti (che possono negare o temere la loro infezione, diffidare del personale medico, essere carenti del supporto familiare). Può essere necessaria una consultazione continua con esperti per la necessità di effettuare modificazioni della terapia a causa di intolleranza farmacologica o insuccesso virologico.

Immunoglobuline per via endovenosa (IGEV), in combinazione con farmaci antivirali, possono essere somministrati a bambini con immunodeficienza umorale sintomatica (bassi livelli sierici di IgG e gravi infezioni batteriche ricorrenti o scarsa risposta sierologica alla vaccinazione). IGEV 400 mg/kg vengono somministrate q 4 sett. I bambini con bronchiettasie, nonostante trattamento standard con antibiotici e una terapia respiratoria aggressiva, possono beneficiare dell’aggiunta di IGEV 600 mg/kg q 4 sett. Nella trombocitopenia associata a HIV, possono essere somministrate IGEV 500-1000 mg/kg/die per 3-5 giorni.

Per trattare la PCP, il farmaco di scelta per i bambini è il TMP-SMX orale o parenterale (la via di somministrazione dipende dalla gravità della malattia); la pentamidina per via parenterale è un’alternativa. L’esperienza nei bambini con altri farmaci come atovaquone, trimetrexate con leucovorina, dapsone con trimethoprim e clindamicina con primachina è limitata. I corticosteroidi possono essere nei bambini un’utile aggiunta per la PCP da moderata a grave, come lo sono negli adulti.

Raccomandazioni sull’immunizzazione: le immunizzazioni per i bambini con infezione da HIV sono riassunte di seguito.

Per bambini con infezione da HIV sintomatica: in generale, i vaccini con virus vivi (p. es., poliovirus orale, varicella) e batteri vivi (es, BCG) non devono essere somministrati a pazienti affetti da AIDS o altre manifestazioni di infezione da HIV indicative di immunosoppressione. Un’eccezione è il vaccino morbillo-parotite-rosolia nei pazienti che non sono gravemente immunocompromessi (categoria 3, v. Tab. 265-12). Questo vaccino, per aumentare la probabilità di una risposta immunitaria, deve essere somministrato all’età di 12 mesi cioè, se possibile, prima che il sistema immunitario si deteriori. La seconda dose può essere somministrata già 4 sett. più tardi nel tentativo di indurre una sieroconversione nel più breve tempo possibile. Se il rischio di esposizione al morbillo è aumentato, come accade durante un’epidemia, il vaccino deve essere somministrato a un’età più precoce, ovvero 6-9 mesi. Altri vaccini, ovvero i tossoidi della difterite e del tetano combinati con il vaccino acellulare per la pertosse (DtaP-o tossoide della difterite e del tetano e vaccino contro la pertosse [DTP]), epatite B, Haemophilus influenzae di tipo b coniugato, e poliovirus inattivato (IPV), devono essere somministrati secondo l’usuale calendario vaccinale (v. Fig. 256-5). Sono raccomandati anche il vaccino pneumococcico a 2 anni e la vaccinazione antiinfluenzale a cominciare dai 6 mesi.

I bambini con infezione da HIV sintomatica generalmente hanno una scarsa risposta immunologica ai vaccini e, pertanto, quando sono esposti a malattie prevenibili con la vaccinazione come il morbillo o il tetano, devono essere considerati suscettibili, indipendentemente dalla storia di vaccinazione. Pertanto, se indicato, devono ricevere un’immunizzazione passiva con immunoglobuline. Le immunoglobuline devono inoltre essere somministrate a qualsiasi membro del nucleo familiare non immunizzato che sia esposto al morbillo.

Per i bambini con infezione da HIV asintomatica: questi bambini devono ricevere i vaccini DTaP o DTP, IPV, Haemophilus influenzae tipo b coniugato, epatite B, e morbillo-parotite-rosolia, secondo l’usuale calendario vaccinale. Sebbene il vaccino orale contro la poliomielite (OPV) sia stato somministrato a questi pazienti senza effetti indesiderati, si raccomanda il IPV poiché sia il bambino che i familiari possono essere immunosoppressi come risultato dell’infezione da HIV e, pertanto, possono essere a rischio di poliomielite paralitica associata alla vaccinazione causata da infezione da virus vaccinico.

Il vaccino contro la varicella è controindicato nelle persone con infezione nota da HIV (tranne che in studi clinici strettamente controllati), indipendentemente dalla stato sintomatologico correlato al HIV. Poiché i bambini  2 anni con infezione da HIV sono a rischio aumentato di infezione pneumococcica invasiva, devono ricevere la vaccinazione pneumococcica. È raccomandata la rivaccinazione dopo 3-5 anni. Il vaccino antiinfluenzale deve essere somministrato ogni anno ai bambini  6 mesi con infezione da HIV.

Negli USA, e nelle aree a bassa prevalenza di TBC, il vaccino BCG non è raccomandato. Tuttavia, nei paesi in via di sviluppo, dove la prevalenza di TBC è elevata, l’OMS raccomanda la somministrazione di BCG a tutti i lattanti alla nascita se sono asintomatici, indipendentemente dall’infezione materna da HIV. Sono stati riportati alcuni casi di infezione disseminata da BCG in pazienti con AIDS gravemente immunocompromessi.

Per i bambini con infezione da HIV sintomatici o asintomatici è consigliabile l’immunizzazione passiva dopo esposizione a morbillo, tetano e varicella.

Per i bambini sieronegativi che vivono con un paziente con infezione da HIV sintomatica: questi bambini, così come quelli sieropositivi, devono ricevere il IPV piuttosto che l’OPV, perché il poliovirus vivo nell’OPV può essere escreto e trasmesso ai contatti immunosoppressi. Il vaccino morbillo-parotite-rosolia può essere somministrato, perché questi virus vaccinici non sono trasmessi. Per ridurre il rischio di trasmissione dell’influenza ai pazienti con infezione da HIV sintomatica, la vaccinazione annuale è indicata per i contatti familiari.

La vaccinazione contro la varicella di fratelli sieronegativi e degli adulti suscettibili che assistono i bambini con infezione da HIV è fortemente incoraggiata per prevenire l’acquisizione dell’infezione da virus varicella-zoster selvaggio, che può causare una malattia grave negli ospiti immunocompromessi; inoltre, la trasmissione da persona a persona del virus vaccinale della varicella si verifica raramente.

Integrazione sociale di bambini con infezione da HIV: un’infezione acquisita dal bambino prima o durante la nascita coinvolge l’intera famiglia. È raccomandata la valutazione sierologica dei fratelli e dei genitori. In ogni caso, il medico deve educare, fornire continuamente consigli sul HIV e illustrare le precauzioni a livello familiare e comunitario per prevenire la diffusione del virus.

Al bambino con infezione si deve insegnare una buona igiene e un comportamento per ridurre i rischi per gli altri. Quanto gli viene detto sulla malattia dipenderà dall’età e dalla maturità. I bambini più grandi e gli adolescenti devono essere edotti della trasmissione sessuale e consigliati appropriatamente. La maggior parte delle famiglie non desidera condividere la diagnosi con altri perché ciò può creare isolamento sociale. Sentimenti di colpa sono comuni. I membri familiari, inclusi i bambini, possono divenire clinicamente depressi e necessitare di sostegno psichiatrico.

Poiché (in assenza di esposizione di materiale ematico) l’infezione da HIV non viene contratta attraverso le tipiche modalità di contatto che si verificano tra bambini, p. es., attraverso la saliva o le lacrime, la maggior parte dei bambini con infezione da HIV deve essere autorizzata a frequentare la scuola senza restrizioni. Condizioni che possono imporre un aumentato rischio agli altri (p. es., morsi, presenza di lesioni cutanee essudative che non possono essere ricoperte) possono richiedere precauzioni speciali.

Solo i genitori del bambino, altri tutori e il medico hanno un’assoluta necessità di sapere che il bambino ha un’infezione da HIV. Il numero degli esponenti del personale scolastico consapevoli della condizione del bambino deve essere mantenuta al minimo necessario per assicurare un’appropriata assistenza al bambino. La famiglia ha il diritto di informare la scuola, ma le persone coinvolte nell’assistenza e nell’educazione del bambino affetto dall’infezione devono rispettare il diritto del bambino alla privacy. La comunicazione di informazioni deve avvenire solo con il consenso informato dei familiari o dei tutori legali e un assenso appropriato per l’età del bambino.

Non esiste motivo di limitare l’affidamento, l’adozione o l’assistenza dei bambini con infezione da HIV. Il rischio di trasmissione dell’infezione da HIV in questi contesti è trascurabile. Per i bambini in assistenza infantile, i problemi relativi alla confidenziali e alla manipolazione di materiali potenzialmente infetti sono gli stessi di quelli dei bambini con infezione da HIV che frequentano la scuola (v. sopra). Tutte le scuole e le strutture di assistenza dell’infanzia devono adottare procedure routinarie per il trattamento di sangue e fluidi o oggetti contaminati da materiale ematico indipendentemente dal fatto che sia nota la presenza di bambini con infezione da HIV. Inoltre, tutte le famiglie devono essere abitualmente informate delle malattie altamente contagiose, come varicella e morbillo, che si verificano a scuola, in modo che i bambini immunodeficienti possano essere protetti senza compromettere la riservatezza.

Adulti con infezione da HIV asintomatica possono accudire i bambini a scuola o in struttura di assistenza dell’infanzia, purché non abbiano lesioni cutanee essudative o altre condizioni che consentirebbero il contatto con fluidi corporei. Non esistono dati che indichino che adulti con infezione da HIV hanno trasmesso il HIV nel corso di una normale assistenza al bambino o l’espletamento di responsabilità scolastiche. Adulti con infezione da HIV sintomatica sono immunocompromessi e ad aumentato rischio di contrarre malattie infettive dai bambini piccoli. Essi dovrebbero consultare il proprio medico per definire l’opportunità di proseguire il lavoro.

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